Le Storie Invisibili sono narrazioni brevi che, partendo da fotografie reali, inventano le vite private dei personaggi, ambientandole in contesti storici e sociali autentici
Mi chiamo Aram e questa è la mia città, Sulaymaniyah. La scala di alluminio che mio cugino e io trasportiamo attraverso il viale non è pesante. Il vero peso è il motivo per cui la portiamo: perché se non lo facciamo noi, nessuno lo farà. È il peso di un posto dove lo Stato è un’ombra e la gente si arrangia. La nostra prima tappa non è per una lampadina, ma per il negozio di mia zia, dove venderò hijab per le prossime otto ore. Attraversiamo il bazar e passo davanti al vicolo degli orefici. Vedo due uomini che se ne vanno con le spalle curve. So cosa hanno fatto. Hanno venduto l’oro di famiglia, l’assicurazione contro la fame durante l’era di Saddam, per comprare a un figlio un biglietto per l’Europa. Io, quel biglietto, non ce l’ho. Sono quello che resta. Mio fratello vende frutta poco più in là. Indossa ancora il shal u shepik con orgoglio e i suoi prodotti sono “di Halabja”. Quella parola è una spina nel cuore di ogni curdo, ma per lui è un grido di resistenza silenzioso. Io, invece, sono circondato da veli. Nel negozio sono sommerso da un mare di seta e chiffon colorati. Sono il guardiano di un archivio di modestia, mentre la mia mente vorrebbe volare via. Guardo in alto, verso la luce che scende dal soffitto, e penso ai miei amici. Ieri sera eravamo su alla Jabal Dawlamayan, dove andiamo quasi tutte le sere. Sotto di noi le luci della città che ci ha cresciuti. Rezan partirà per il Canada, Karim per la Germania. “Le stelle lassù saranno più luminose,” ha detto Rezan. Ma io resterò qui, con le stesse stelle, a guardare la città svuotarsi dei miei coetanei. Nessuno di noi è felice di andarsene, ma nemmeno di restare. Loro fuggono dalla corruzione e dalla mancanza di futuro; io resto per un senso di dovere che non so spiegare. Il Bulbul che è in me è in gabbia. Canta per una libertà malinconica, quella che a volte il tempo ci illude di poter toccare, solo per richiudere ogni volta le tende e oscurare di nuovo il cammino. Così capita che, quando la stanchezza si fa sentire, vada ad Amna Suraka. Mi fermo davanti al muro crivellato di colpi di mitragliatrice. Quel silenzio parla più forte di qualsiasi discorso. Racconta perché siamo quello che siamo, perché diffidiamo di Baghdad, perché mio nonno non c’è più. È il peso della storia, un macigno che ogni curdo della mia generazione si porta dentro.
Alla fine della giornata, quando chiudo il negozio, il bazar è deserto. Sono l’ultima luce dorata in un viale che sprofonda nel blu. Sistemo i veli, spazzo via la polvere del giorno. Sono Aram, il ragazzo con la scala, il venditore di hijab, l’amico che è rimasto. Non sono un eroe, sono solo uno che cerca di tenere accesa una luce, qualsiasi luce, in attesa che qualcosa, qui, cambi. Il mio futuro è questo: il peso della scala e la pazienza della seta. E aspetto. Aspetto che la rosa del Kurdistan risponda al mio canto d’amore.
Note
- Sulaymaniyah: è storicamente la capitale culturale e intellettuale del Kurdistan iracheno e uno dei centri politici più importanti del paese.
- Halabja: Il 16-17 marzo 1988, durante gli ultimi mesi della guerra Iran-Iraq, l’esercito di Saddam Hussein bombardò la città curda di Halabja con una miscela di gas velenosi (tra cui gas nervino, mostarda e cianuro). Morirono circa 5.000 persone, per lo più civili, donne e bambini, in pochi minuti. Migliaia di altri morirono in seguito per malattie, cancro e malformazioni congenite
- Bulbul: Nella tradizione poetica curda il bulbul, che in curdo e arabo significa usignolo, è l’innamorato per eccellenza, che canta incessantemente di amore e di struggimento per la sua amata, spesso rappresentata dalla rosa (gul). Nel corso del ‘900 questa metafora poetica è stata politicizzata. Il bulbul è diventato il poeta curdo, o il popolo curdo stesso, che canta il suo amore per la patria (la rosa), che è bellissima ma irraggiungibile e piena di spine (le oppressioni, i confini, le guerre).
- Amna Suraka: Durante il regime di Saddam Hussein, in particolare negli anni ’80 e ’90, Amna Suraka non era una semplice prigione. Era la sede dei servizi segreti iracheni (Mukhabarat) a Sulaymaniyah. Un centro di tortura e interrogatori: qui, migliaia di curdi tra cui intellettuali, attivisti politici, studenti, ma anche persone comuni sospettate di opposizioni, sono stati torturati, interrogati e uccisi con metodi atroci.











