Le Storie Invisibili sono narrazioni brevi che, partendo da fotografie reali, inventano le vite private dei personaggi, ambientandole in contesti storici e sociali autentici
Elif ha dieci anni e riccioli neri che non obbediscono mai del tutto. I suoi occhi scuri assorbono Şanlıurfa come spugne al pozzo di Abramo. Respirano la sua città, un mosaico di popoli e dolori che si muove tra vicoli dove i muri di pietra hanno graffi che sussurrano storie di profeti, interrotti da cumuli di macerie grigie. Incontrano i nuovi sovrani, gatti furtivi, custodi indifferenti del regno che il terremoto ha lasciato in eredità.
Il suo rifugio è la bottega di Mustafa, falegname turco dalle mani e lo spirito pieni di calli. L’odore di cedro e polvere riempie l’aria.
“Baba Mustafa, mi mostri come lo rendi liscio?”
Mustafa sorride. “La levigatura, piccola Elif, richiede pazienza. Non puoi forzarla.” Le sue dita accarezzano un pezzo di noce, facendo emergere una venatura. “Noi turchi e voi curdi… siamo parti diverse dello stesso albero.” Poi il sorriso svanisce. “Ma ci sono quelli che vedono solo il legno da bruciare.”
Il suo altro punto fermo è il forno all’angolo, dove lavora Amet, fuggito da Kobane da bambino. I proprietari lo hanno preso con sé, dandogli un nome e un lavoro, anche se il suo cuore è rimasto al di là del confine, in Siria.
“Elif! Attenta, è caldo!” la avvisa, con un turco spezzato che sa di arabo e curdo.
“Amet, com’era Kobane?”.
Le sue dita si bloccano. Un rombo di aereo li fa sobbalzare entrambi.
“Era piena di cortili,” dice infine. “Ogni casa aveva il suo, con l’odore della terra bagnata al mattino. Poi… è arrivato il rumore. Le cose che esplodono non fanno ‘boom’ come nei film, Elif. Strappano via il mondo. Strappano via i cortili, le case, le persone.” Il suo silenzio racconta il resto.
Al mercato, le lingue si mescolano in un dialetto in continuo mutamento: turco, curdo, arabo. Donne curde vendono tessuti dai disegni antichi mentre i loro occhi sfuggono ai poliziotti. Uomini arabi bevono tè parlando di case che sono solo ricordi.
Mustafa, mentre pialla una porta sbeccata, racconta:
“Qui si chiamava Urfa. Poi arrivarono i francesi. Per la nostra resistenza ci diedero ‘Şanlı’, gloriosa. Ma la gloria è una coperta pesante, Elif. A volte soffoca.”
Elif capisce che la sua città è crocevia di orgogli feriti. Curdi che lottano per essere riconosciuti, siriani non voluti da nessuno, turchi spesso aggrappati al nazionalismo per paura di perdere il controllo.
Una sera trova Amet su un muro diroccato, che guarda verso il confine siriano. I gatti gli si muovono intorno, indifferenti.
Lei si siede accanto a lui.
“A Kobane i cortili sono pieni di macerie,” dice lui all’improvviso. “Me l’hanno detto. Qualcuno cerca di ripulirli, ma ci vuole tempo.” Elif guarda tra le rovine. Vede una gatta randagia portare pane raffermo a tre micetti tra i calcinacci. Quando è per strada gli occhi degli altri le erano sempre sembrati uguali, ma ha ormai capito che dentro di loro scrosciano correnti di mondi diversi: acque più scure, altre più calme. Pensa a sua madre e ai suoi fratelli, che hanno ciuffi più biondi e pelli più scure.
Şanlıurfa è questo: acque di fonti diverse e pane appena sfornato, vecchi che levigano memorie e giovani che piantano semi nel cemento. Tra il profumo del legno di Mustafa e il silenzio di Amet, Elif impara a leggere la mappa più complessa: quella del dolore e della resistenza, che qui ha il volto multietnico di chi cerca semplicemente di sopravvivere al giorno dopo.














