(Fotografie e didascalie in fondo al testo)
Immagino il cammino come binari del treno. Da un lato, la lunga linea dell’esperienza nel mondo. Il viaggio con gli altri, gli avvenimenti, i profumi, le lingue e gli occhi. Sull’altro binario, un viaggio fatto di domande, pensieri, ombre da scoprire e luci da dirigere. I binari sono sempre uniti dalle assi di legno, fondamentali per mantenere alla giusta distanza i due mondi, tenendoli uniti allo stesso tempo.
Lungo la linea sono tante le stazioni, e con loro gli intrecci, i cambi di direzione, i rallentamenti e le partenze. Ogni volta la linea riprende la sua forma classica, senza sapere se sia effettivamente la stessa di prima o una diversa. Quel che di certo è cambiato è ciò che la percorre: il treno. Nel modello stesso quando i cambi sono più grandi. Nella sua parte interiore, col sali-scendi delle persone, i cambi più piccoli e quotidiani. Un continuo rimescolare di colori, voci e anime, che alla fine siamo noi.
Se troviamo il coraggio, le risorse e le capacità di costruire le rotaie, dov’è che un treno non può andare?
“Lei è Anna! Di dov’è? Della Polonia!”
“Vengo dalla Finlandia..”
“Aaah, è un dolce Bonbon al cioccolato!”
Tiffani, la proprietaria dell’ostello di Mostar, è un uragano. Con il suo inglese mescolato al serbo-croato, riesce in qualche modo a far parlare tutti con tutti. Da un cinese semimuto, a un estone dal carattere sicuro e forte, fino alla piccola finlandese “polacca”. “Aaaaah Tala Tala, amico Italja! Guest number one!”.
Ripartito da Mostar, in un sali e scendi verso il mare, in una sola giornata sperimento tanti tipi di incontri. Una coppia di tedeschi in bicicletta, allarmata da un cordino che mi scende da una borsa, dalle mine antiuomo, dai cani, dal caldo. Una coppia di olandesi anzianotti, di nuovo in bicicletta, che, incrociati per strada, vorrebbero raccontarmi ogni minuto del loro meraviglioso viaggio.
Gli occhi di un monastero isolato tra le torride montagne, che mi spia nel silenzio delle due del pomeriggio, mentre sbuccio una banana sotto un suo albero.
La cassiera che mi regala la cioccolata, senza che i soldi mi siano sufficienti di per sé.
E poi le differenze umane in circostanze simili: su per una lenta salita attorcigliata in continui tornanti, tra pietre e nuvolette che non fermano il sole delle 13, sudo e sbuffo. Piano piano mi perdo tra i pensieri nell’attesa di trovarmi in cima. Una ragazza con un furgone si ferma: “Ti serve qualcosa? Cibo? Acqua?”. Mi regala una bottiglia, con sopra scritto “Portami dove l’unica canzone è quella che cantano gli uccelli”. Poco dopo, la salita è ancora più intensa. Una grossa macchina mi costeggia, non capisco perché non mi sorpassi, ma sono talmente in tensione che non posso guardare.
Poi cedo. Li trovo di fianco a me che si muovono alla mia velocità e mi fissano: “Ehi! Sai dove siamo?”. Perdo l’equilibrio, esco di strada. Non mi esce una parola dalla bocca, non ho aria. Vorrei mandarli a fare in culo, come primo istinto. Ma cerco di dirgli di fermarsi più avanti, che li avrei aiutati. Se ne vanno.
Non sempre è facile capire cosa si ha davanti.
Saluto la Bosnia nei suoi 9 km di costa e giungo a Dubrovnik. Un gioiello. Splendente, meraviglioso, desiderato, gelido.
Mi trovo a girare tra tacchi, ristoranti, camicie e negozi di souvenir. Il tutto immerso in una bellezza da favola, una città da videogioco.
Le fidanzate bellissime, le cene sfarzose e i prezzi di tutto altissimi mi fanno sentire più solo del normale. Allora mi rifugio nel mare e nel suo orizzonte, protetto al di fuori delle mura.
Una birra, una mela, il solito silenzio.
Le notti, poi, le passo a combattere con i bedbugs, il peggior nemico di Morfeo. Quando attraverso il confine col Montenegro un paio di giorni dopo, sono sollevato di essermi lasciato alle spalle giornate non facili e di aver cambiato aria.
Giungo nel meraviglioso fiordo di Kotor, dove mi preparo per la grande salita verso le montagne.
Non so ancora che il dislivello da superare non debba iniziare solo sulla strada, ma anche dentro di me. Dubrovnik ha solo acceso una lampadina nel buio. Gli occhi, però, ci mettono un po’ prima di abituarsi quando c’è poca luce e così, col tempo, la stanza comincia a svelare altri oggetti, i suoi cassetti e le sue porte.
Le salite sotto il sole disegnano piccole opere di sale sulla mia maglietta. Fontane e rubinetti danno il ritmo alle mie pause; ogni piccola discesa mi regala il sollievo di una carezza di vento. Nel piccolo villaggio di Grahovo conosco Resan, un bambino che gioca a calcio da solo. Il suo compagno di squadra è il muretto della piazzetta, dove le piante si stanno piano piano riappropriando dei monumenti e delle strutture. Tra i passanti è l’unico a rivolgermi la parola; due parole in un inglese stentato sono comunque meglio del silenzio delle pietre. E CR7 è ancora un appiglio internazionale.
La sera giungo a Kocani, dove monto la tenda in un luogo che sono sicuro di aver visto in un sogno poche settimane prima. Che strana sensazione.
I due giorni successivi spingo, passando tra strade polverose, il grande canyon di Piva e il maestoso parco nazionale di Durmitor. Una piccola deviazione mi porta al monastero omonimo del canyon e del lago che aggirerò poco più tardi. Nello scendere la stradina che conduce all’entrata sento subito un cambiamento: mi sembra di immergermi sott’acqua, nel silenzio ovattato di un luogo lontano dal mondo. C’è il sole, il prato verde è circondato da un muro di pietra, la casa di Dio e quella dei frati. Tutto è immobile, anche l’unico abitante, che siede sotto un portico avvolto nei suoi pensieri e in una lunga barba brizzolata. Non mi vede finché il vento fa cadere una delle bottiglie di plastica che sto riempiendo alla fontana, svelandomi. Mi fa un cenno. Tutto rimane come prima. Allora, quasi trattenendo il respiro, mi avvio pian piano verso l’uscita. Ringrazio con un piccolo cenno della testa, per poi riprendere la bicicletta e, in pochi minuti, rinfrescato, riemergere tra le macchine e la strada del mondo superficiale.
Verso sera, quando piccole sassaiole scrosciano cadendo dalle pareti e rimbombano dentro la pancia della valle, monto la tenda poco sopra il lago, in un punto sicuro. Gli uccelli cantano e scambiano parole, un cervo urla con la sua voce rauca. Già da un po’ di giorni mi sento molto empatico con gli insetti. Soprattutto quando li vedo attraversare le strade e penso all’incredibile viaggio che stanno facendo e ai suoi immensi pericoli. Il mio, in confronto, sembra uno scherzo. Quanti di loro arriveranno vivi dall’altro lato? Coleotteri, bruchi, formiche, lombrichi. Più vanno piano, più penso che non ce la faranno mai, nonostante io faccia di tutto per evitarli. Mi chiedo tante volte se abbiano consapevolezza di cosa sia una strada e di che pericoli porti, se esista una comunicazione nella specie in cui si dica “ehi, lì si muore!”. Forse, però, sono proprio quei confini invalicabili che ci faranno scoprire quello che fino al giorno prima non esisteva, che ci permetteranno di trovare il seme di una nuova pianta, ascoltare la voce di un cuore nuovo. O semplicemente trovare una nuova casa.
Chissà se siamo così diversi.
A Žabljak non c’è acqua. Facendo dei lavori hanno bucato un tubo, allagato il paese e lasciato tutti a secco. Niente doccia dopo quattro giorni di sudore. All’arrivo in campeggio, però, mi offrono una rakija: mi sembra un ottimo compromesso.
Dopo aver attraversato le grandi montagne di Durmitor, decido di riposarmi un po’, prima di tornare ad affrontarle. Questa volta a piedi.
Dopo una giornata di cammino, tra rocce, campi di neve e camosci, scendo dentro una ripida valle dove c’è un rifugio abbandonato.
Sono solo. Mi siedo a guardare il tempo scorrere e a respirare la tranquillità di questo luogo. Un gruppo di mucche è lì a pascolare. Alcune mangiano, altre si strusciano sui cespugli, qualcuna si sdraia su delle grandi foglie che coprono pozze d’acqua e fango. La loro pace è contagiosa. Un grosso toro sbuca da dietro il muro del rifugio e si ferma pochi metri davanti a me. Mi guarda e poi, con fare pacato, lascia andare diversi litri di urina.
Ci osserviamo per un po’, finché se ne va.
Alcuni pezzi del tetto del rifugio sono sparsi nel prato, probabilmente strappati via durante una tempesta; tanti fiorellini gialli scodinzolano tra i fili d’erba. Sono le 18 e sarei già pronto ad andare a dormire. Sono convinto di essere l’unico umano nella valle, quando all’improvviso, dietro di me, sento delle voci.
Sbucano due ragazze, con dei fisici che non hanno nulla da invidiare alla muscolatura del grosso bovino.
Sono svizzere e tra una chiacchiera e l’altra scopro che camminano da quattro anni. Dal loro paese di origine sono arrivate in Nepal! E da lì, in aereo, sono tornate in Montenegro per continuare a camminare verso altri lidi.
Scende la notte; loro dormono in tenda e io dentro il rifugio, nell’unica stanza dove non sono ammassati rifiuti e oggetti rotti o abbandonati. Ci metto un po’ a prendere sonno, la testa freme: pensieri, parole, voci. Voci..! Voci di ragazze che sono molto più reali di quanto possa inventare il mio inconscio. Non sono le due ragazze della tenda, ne sono certo. Mi sembra di avere delle allucinazioni uditive. Guardo il telefono: è partita qualche registrazione? Sembra che le voci vengano da dentro la casa: per un attimo penso a degli spiriti del rifugio.
Il mio cervello non riesce proprio a concepire che qualcuno potrebbe stare arrivando di notte.
Dalla finestra, invece, spuntano due lucine. Ci sono nuove ospiti, in carne e ossa.
A notte scesa conosco quindi Jolisa e Yvonne. Erano rimaste su una parete a guardare il tramonto, per poi avventurarsi tra i sentieri con le ultime luci. Sono piene di energia ed entusiasmo; così, condivisa la stanza, rimaniamo a lungo a chiacchierare. Scopro che Jolisa sta viaggiando a bordo di un Tuk-tuk dall’Olanda al Pakistan. Rimango scioccato; è incredibile che in un rifugio abbandonato tra le montagne del Montenegro, di 5 persone che si incontrano, 4 stiano viaggiando così a lungo. La cosa mi elettrizza, ma allo stesso tempo mi lascia dell’agitazione, che mi rimane addosso per un paio di giorni. Il giorno dopo infatti non funziona niente: né la testa, né il corpo, né i sentieri. E non è un gran mix di cose, quando ci si trova tra delle montagne a diversi km dal ritorno. La neve spesso non mi lascia il passaggio, così sono costretto a uscire dal sentiero e ad arrampicarmi fino al primo passo. Ammiro e invidio i camosci che mi girano intorno agili, senza nessun tipo di paura, emozione che invece mi attraversa in diversi momenti, ma che fortunatamente riesco a controllare. La stessa neve mi impedisce anche di raggiungere la cima più alta, il Bobotov Kuk, 2523m di roccia, ma il mio corpo non aspettava altra notizia.
Mi incammino così verso un altro passo, ciondolante piano piano tra campi di neve e pietraie, per scendere poi a tempo di record (negativo) fino al Lago Nero, fino al bar.
Forse avventurarsi tra faticose montagne con diversi chili sulle spalle non è esattamente quello che il mio corpo richiede nei giorni di “riposo”.
L’ultimo saluto mentre riparto da Žabljak è quello di Jelena, che mentre lascio il campeggio mi grida il quotidiano “Emanuello!”, seguito questa volta da un “Bye!”.
Il perché l’incontro con altre viaggiatrici di lunga data mi abbia lasciato una certa inquietudine rimane intanto una domanda aperta: forse perché mi hanno fatto pensare a luoghi lontani, a problemi che dovrò affrontare, e hanno così portato via la mente dal “momento” del presente? Forse perché mi hanno fatto sentire un po’ meno unico, punzecchiando il mio ego?
Le salite del Montenegro mi danno però presto altro a cui pensare. Sono controvento e i tornanti sembrano voler eguagliare il Rio delle Amazzoni in quanto a curve, tanto che un motociclista slovacco, vedendomi boccheggiare, si offre di trainarmi in cima con una corda: rifiuto cordialmente. Lungo la via verso sud, in un’intera giornata ho il piacere di incontrare un solo villaggio, piccolissimo: Boan. Attraversandolo noto subito un minimarket fatto di legno, spranghe di ferro e lamiera. Sembra abbandonato, ma poi noto all’interno dei neon rossi e blu: è vivo! Pochi metri più avanti le Poste sono invase di piante che silenziose scivolano fin dentro agli infissi, ma anche queste sembrano in qualche modo funzionare. Ancora pochi metri, e siamo già all’uscita del villaggio, e tocca al grande hotel. Questo lo do per spacciato. Tutto fatiscente, è il classico bestione abbandonato in mezzo alla natura. Guardando con attenzione scopro però luci accese e tavole apparecchiate al primo piano. Se non fosse per un gruppo di motociclisti fermi in una specie di bar, non saprei se credere che ci sono davvero persone in questo posto, perché a parte loro non si vede assolutamente nessuno.
Lungo la via e i giorni passo per le cittadine di Kolašin e Berane, tra bambini che vendono limonate a bordo strada, studenti che mi guardano curiosi e mucche tra cui fare lo slalom. Un pastore che ne ha appena accompagnate un paio bloccando il traffico, vestito con una maglietta rossa che a stento trattiene una pancia che tradisce vizi e golosità, mi apre un sorriso con due denti alzando il pugno: “Bravo! Sport Medizin!”. Un benzinaio, mentre ricarico l’acqua, mi saluta in italiano: “Buongiorno signor conte! Vai in Macedonia?” Sì, ma di mezzo ci sarebbe anche il Kosovo.
E così, improvvisamente, finiscono le montagne: dal passo, sul confine, un’immensa pianura si stende davanti a me. Sento qualcuno cantare. Sono i miei polpacci: una parte di me gioisce davvero.
Lungo la discesa continuo a guardare questo paese, cercando in qualche modo di credere che più ampia è la vista più posso capirne qualcosa. Mi devo fermare per togliermi le cuffie. Che suono ha il Kosovo? Cosa si sente? Dentro di me mi ripeto 3-4 volte “Sono in Kosovo, sono in Kosovo…”, quasi a non riuscire a capirne il significato. Per me, nato nel ’92, la parola Kosovo è tristemente associata a guerra, violenze e massacri, eppure sono passati 26 anni. Cosa c’è oggi?
Lasciando le montagne e immergendomi tra la gente, sono presto nella cittadina di Peja. L’atmosfera è già molto diversa dal Montenegro e dai paesi balcanici attraversati. C’è più confusione, più rumore, più disordine, più movimento.
Peja mi ridà il tempo di non avere nulla da fare, e così eccolo, quel caro cervello che giorno dopo giorno aspettava il momento di venire fuori a fare i conti.
Passo il tempo seduto al parco a osservare il mondo intorno e soprattutto a scrivere, cercando di osservare quello interno a me. Mentre sono seduto all’ombra e bevo una bibita fresca, senza avere orari, dall’altro lato del fiume un gruppo di muratori suda e si spacca la schiena. Uno di loro spinge con fatica una carriola su per una rampa di legno, per arrivare al piano del palazzo su cui stanno lavorando. Quasi nessuno ha il cappello e il sole è molto forte. Hanno un tubo dell’acqua sempre aperto che usano per rinfrescarsi e per bagnare il luogo di lavoro. “Che fatica”, penso. Sembrano tante formiche che si muovono e fanno cose. E io? Io sono una cicala? Ed essere una cicala è poi così sbagliato? Ed è sicuro che vada come nella storia?
Al tramonto sono di nuovo su una panchina, a guardare. La verità è che mi annoio, e questa è una novità. Sono sempre stato bravo nel non avere cose da fare, nell’avere il tempo, nel muovermi nel vuoto. Probabilmente gli anni a Bologna mi hanno disabituato; nella frenesia e nelle cento cose da fare ho perso la capacità di stare fermo nel momento. Forse i Balcani non mi stanno dando quello che vado cercando. Forse.. forse la risposta non è qui. La causa della mia noia e del malessere che la accompagna non è in queste domande che la troverò.
Da Peja mi sposto a Prizren, città gioiello del paese, chicca lasciata dagli ottomani. Da Arsim, gestore dell’ostello che mi ha accompagnato per la città e accolto come un amico per due giorni a Peja, incontro la generosità di questo popolo lungo il cammino fino alla porta di Prizren.
Un signore mi regala una bottiglia d’acqua fresca dicendomi “respect”. Un altro, scioccato alla mia vista, quasi risvegliandosi mi regala una bibita fresca al limone. Vari passanti semplicemente mi salutano. Un gruppo di muratori in pausa, al mio passaggio alza le braccia e urla “Go! Go! Go! Go!”. Entro in città emozionato.
A Prizren ho decisamente più compagnia: dalla Siria, Marocco, Francia, Giordania, Arabia Saudita, Corea del Sud, Giappone, Kosovo. La cosa mi fa piacere; ho voglia e bisogno di socialità, ma qualcosa mi spinge comunque a stare ancora da solo. Vago per il primo giorno, senza meta, senza perché, nell’attesa di incontrare. A tratti sono in compagnia, ma finisco lo stesso per stare da solo.
Il secondo giorno, non molto diverso, finisce in cima alla fortezza, guardando il sole chiudere la sua orbita.
Nella lentezza, nel silenzio, nell’assenza arriva la risposta che cercavo. Nell’ultimo anno e mezzo prima di partire ho lentamente cambiato l’approccio mentale con cui affrontare il viaggio. Da uno più intimo, di ricerca interiore e spirituale, di pancia, a uno più professionale, più pratico, più razionale. Il peso di quattro anni di scuole di fotografia, di ore passate a imparare a cercare, a interpretare e raccontare, è tutto sulla mia testa. Una sorta di aspettativa, di pressione produttiva: devi fare dei reportage! “Devi”. È per questo che stai andando, no? E quindi ogni giorno una vocina mi dice “cosa fai oggi? Che lavori ci sono qui? Che storie ci possono essere? Fai delle foto?”.
Questa voce però non è mia. O meglio, è mia e assolutamente di nessun altro, perché sono solo io a impormi tutto questo. Il mondo non sta di certo ad aspettare me e quello che faccio. Eppure non viene dal mio profondo, viene solo dalla mia testa. E nella testa frullano un milione di cose che tante volte sono proprio quelle che non dobbiamo ascoltare, perché spesso non sono voci vere, e soprattutto non sono voci sincere. Non essendo tutto ciò, non sono nemmeno voci, e di conseguenza motivazioni, forti.
Nell’immensa fortuna, nell’assoluto privilegio di poter vivere questa vita dove ho la libertà, il sostegno umano, la possibilità economica e il coraggio di fare questo viaggio, non può essere una forza così poco profonda a farmi andare avanti, a rendermi capace di vedere la bellezza e allo stesso tempo di saper tenere il peso delle complessità. Perché se volevo vivere una certa vita potevo stare a Bologna: avevo tutto. La pace, gli affetti sinceri, una strada da seguire nel lavoro e nelle passioni. Invece ho deciso di mettere tutto in discussione, di rinunciare alle comodità fisiche ed emotive, alle sicurezze della stabilità, all’amore per le persone. E tutto questo perché? Non può essere di certo una voce che viene dalla testa, un volere “professionale”, a trascinarmi in questa avventura come motivazione trainante. Può venire solo da dentro, da molto più nel profondo, dal cuore. Ed è proprio lì che riscopro tutta la voglia, la forza e i perché di questo viaggio. Perché non sto andando a cercare solo fuori, ma anche dentro, e la luce per un viaggio del genere non può venire da nessuna parte, se non da dentro di sé. Se non dal cuore.
Da dove viene la luce, di fatto, non cambia nulla di cosa si può fare ogni giorno. Cambia solo il modo in cui lo facciamo.
È da lì che devo ricominciare a guardare tutto, perché in cinque anni passati a progettare, studiare e sognare tutto questo, ci sono sempre stati un’enorme passione, curiosità e amore verso il mondo. Nelle sue sfumature più armoniose e dolci e in quelle più tenebrose e crudeli.
Sono partito per rimettermi in discussione, per rimescolare le carte, per capire quali sono quelle fondamentali. Alla ricerca del nulla, di Dio e di qualcosa che non so.
Dal basso, tra le vie della città e le moschee, risuonano i ritmi delle darbuke dei bambini gitani e i canti della preghiera serale. La sigla dell’UÇK, l’esercito di liberazione del Kosovo, svetta imponente sulla vallata. Appena sotto sventola una grande bandiera albanese.
Mi chiedo se in questo tramonto sia sorta una nuova alba.
Pedalare in Kosovo è davvero una coccola. Al di là delle poche montagne e nonostante un sole piuttosto caldo, in una giornata riempio praticamente una calza della Befana. Vengo ripetutamente fermato: una barra di cioccolato, una merendina, una banana. Dei ragazzi su un’Audi bianca mi affiancano e mi passano una Red Bull dal finestrino. Un giovane poliziotto mi filma mentre scendo lungo una discesa, e mi saluta sorridente. Da una casa di campagna mi ferma un signore, e in un attimo i bambini sono tutti sulla strada. Il più piccolo, scatenato, mi chiede cosa c’è in ogni borsa. Non so in che lingua ci capiamo. La più grande mi chiede: ”What’s you’re from?” e mi riempie la bottiglia con acqua fresca.
A Pristina, inizialmente, non avevo intenzione di andare. Un’amica italiana, però, che ha vissuto in Kosovo nel 2008 (anno della dichiarazione d’indipendenza dalla Serbia), me ne ha parlato in maniera piuttosto singolare. Forse non particolarmente bene, ma sicuramente facendomi capire che è un luogo simbolicamente forte per capire alcune dinamiche di questo paese.
Il Kosovo è di fatto una base degli USA tra i Balcani. Mentre l’UE col passare degli anni ha cercato di tenere i paesi di questa regione al guinzaglio, promettendo spesso carota, ma di fatto poi lasciando quasi tutti a bocca asciutta e così perdendo sempre più credibilità, altri si sono avvicinati e infiltrati. USA e Cina, di fatto, sono i grandi paesi che stanno legando con le repubbliche balcaniche, prendendo lentamente sempre più potere in queste terre.
Il conflitto Serbo-Kosovaro del 1998 è stato la grande occasione per gli USA per infilarsi nei Balcani, dando manforte a chi sfidava la Serbia. Il paese slavo é da sempre grande alleato della Russia, e negli ultimi anni sempre più vicino alla Cina.
Un’occasione perfetta per mettere le mani sulle risorse della regione e per far sentire anche la propria presenza di fronte a quella delle storiche potenze nemiche.
Così, durante la mia prima sera nella capitale, dopo aver vagato tra stradine, piazze e monumenti, mi ritrovo in Corso George Bush. L’aria è piena del rumore profondo di musica elettronica, che si mischia al reggaeton e altri ritmi con bassi avvolgenti. Cerco di scoprire da dove viene e, avvicinandomi alla biblioteca nazionale, mi imbatto nel Pride di Pristina (qui l’articolo sulla situazione delle persone LGBTQ+ nei Balcani Occidentali).
Nella capitale non scopro molto di più, ma passo giornate molto piacevoli tra amici cileni, che mi fanno sentire sempre come se fossi a casa, e kosovari, che non perdono occasione per invitarmi in locali a sentire musica, a mangiare e a conoscere persone.
Dopo circa una settimana lascio il paese con l’età media più bassa d’Europa, circa 31 anni. Il 50% della popolazione è under 30. L’atmosfera che si respira oggi di conseguenza è vivace, figlia dell’energia di una gioventù che crede nella crescita del proprio paese. Le mie domande hanno ricevuto risposte chiare: dopo 26 anni, nonostante ci siano ancora grosse difficoltà a livello politico ed economico, il Kosovo è un paese estremamente vivo.
La pedalata fino a Skopje si rivela una delle più brutte di sempre: nessun contatto umano, ma soprattutto ore e ore tra aziende, fabbriche ed edifici, su una strada di buche e polvere, affiancato da camion, camion e camion. Nella capitale della Macedonia del Nord, così chiamata dal 2019 per raffreddare le tensioni con la Grecia e riaprire le possibilità di entrare a far parte dell’Unione Europea, mi accoglie Emre. È seduto su una panchina a fumare, avvolto dai capelli lunghi e una barba incolta. Mi vede arrivare e guardarmi intorno: “Ehi ciao! Cerchi l’ostello? È lì! “. Si avvicina coi suoi occhi giallastri e la fronte sudata, mi apre la porta del palazzo. “Sei comunista? Ho degli amici sardi, loro sono comunisti!”. Vengo aiutato a portare su le borse, in quello che di fatto è un appartamento in un palazzo di origine sovietica, grigio e che perde pezzi di stucco come capelli. Emre è nella mia stessa camera. “Sai, io sono comunista. Cioè no, anarchico. Io sono socialista! Non posso più stare in Turchia adesso, per la polizia. A una protesta mi hanno aperto la testa, qui dietro, quegli stronzi!”. Mentre un uomo gigante passa lentamente per la stanza, Emre inizia a farmi ascoltare del punk turco che mette a tutto volume dal telefono. Ci spostiamo in cucina, dove continua a parlare ininterrottamente, finché l’uomo gigante gli dice almeno di mettersi dallo stesso lato della stanza dove sono io, senza urlare da una parte all’altra.
Skopje, per il poco che ho potuto viverla, è una città piuttosto bizzarra: il centro è una ricostruzione in stile neoclassico kitsch. Colonnati, frontoni, facciate bianco-gessate, decine di statue di eroi nazionali e fontane barocche vanno a coprire e mimetizzare gli enormi palazzoni che l’architetto giapponese Kenzo Tange costruì dopo il devastante terremoto del 1963, in una città che era da ricostruire per l’80%. Il brutalismo futurista proponeva strutture in cemento armato a vista, che il presidente Nikola Gruevski, spinto da un’ondata di nazionalismo, nel 2014, ha cercato di “migliorare”. Grande malcontento popolare. I neon blu, rosa e rossi illuminano la piazza, i palazzi e le statue. Due grandi velieri sono oramai piantati lungo il fiume Vardar, nel cuore della città. Fuori dal centro ordinato e maestoso, Skopje si scopre più rumorosa e squinternata, oltre che varia e multi etnica. Sono infatti diversi i gruppi etnici con una presenza importante: oltre ai macedoni sono infatti molto numerosi gli albanesi (20,5%), i Rom (4,6%), i Serbi e i Turchi. Per le strade, ai semafori e nelle piazze sono le famiglie gitane quelle che si fanno notare di più. Da sempre ho un debole per loro, un certo interesse, fascinazione, curiosità. Ammiro la loro libertà, il loro essere fuori dagli schemi. Quando tutto tace ci sono loro a fare rumore, a ridere ad alta voce, a muoversi in maniera sregolata, a essere i più allegri. Ahimè, la realtà dice che la loro vita è molto più complicata di così. Razzismo e discriminazioni sono il pane quotidiano; povertà, fame e disagio alcune delle conseguenze. Dietro i bambini che suonano i tamburi si muovono spesso giri di criminalità, che li costringono a raccogliere soldi per poi pagare un’alta percentuale del guadagno.
Nelle notti a Skopje il sonno è piacevole quanto una zanzara. Del piccolo insetto volante non ce n’è che qualche esemplare, ma il vero problema è l’uomo gigante. Solitamente quando qualcuno russa non mi faccio problemi a svegliarlo, a fargli suoni che possano farlo smettere, addirittura a tirargli cose. Nel frattempo, però, ho scoperto chi è questo personaggio. Si tratta di Ervin Katona, campione del mondo nel 2011 come “uomo più forte del pianeta”. Vanta i record di 300kg sollevati e di aver trainato un camion di 40 tonnellate. Oggi è il proprietario dell’ostello e dorme in una stanza condivisa da otto letti. Non lo disturbo.
Il giallo dei campi seccati dal sole mi circonda per diverse ore, salvo lasciare verso sera spazio a una valletta più verde. È estate piena, e la Macedonia del Nord è torrida. Il silenzio delle assetate distese è l’eco di quello dei suoi abitanti al mio passaggio, con cui l’interazione è praticamente inesistente. Mi capita più volte di salutare qualcuno, e questo, guardandomi, non ricambia. Non mi era mai successo.
Entrando in Bulgaria le cose non cambiano. A Sofia però so di essere atteso.
Nella capitale vive Marina, una mia ex coinquilina bulgara, che riuscirò a salutare dopo quasi dieci anni che non ci si vedeva. E poi Lorenzo, il figlio di una carissima amica di mia madre, con cui trascorro dei bellissimi momenti a ridere, mangiare e a raccontarci le proprie vite. Ci eravamo sfiorati nel 2013 in Australia; ce l’abbiamo fatta oggi in Bulgaria, dove vive e ha messo su famiglia.
In tutto questo, però, sono ospite a casa di un suo ex collega. Nato in Islanda, da padre polacco e madre tedesca, con nonna italiana e cresciuto in Spagna. Da diversi anni vive in Bulgaria e abita con la sua ragazza, di Sofia. Il personaggio rispecchia totalmente le sue origini, in un mix di simpatia, gentilezza e delirio. È un gamer assatanato e passa le giornate bevendo Monster e fumando canne dalla mattina alla sera, giocando al PC in un mondo virtuale che per molte dinamiche non è troppo diverso dalla vita reale. Tra i vari discorsi che facciamo nei giorni in cui mi fermo, esce questa frase: “Non capisco veramente come una persona possa spendere 100€ per una maglietta. Io se ne trovo 3 per 5€ penso che siano quelle perfette per me!”.
La sua vita da gamer mi fa riflettere molto e questa frase è miccia per andare più in profondità. Comprare magliette per 100€ è un po’ come comprarsi un’identità, cercare un modo per appartenere a una vita di qualche tipo. 100€ quasi sicuramente non è il valore del tessuto e del lavoro fatto per ottenerlo, ma il valore del significato di un marchio. Avendola si entra in una categoria; avendone tante si va ancor più in profondità. Più si ha, più si è. In un certo senso, ognuno di noi cerca di crearsi una vita, di dargli un significato. Tante volte la “tattica” è quella di affidarsi a beni materiali che ci fanno sentire parte di qualcosa ed essere qualcuno. Di fatto, quello in cui si vive è però un mondo che non esiste, perché la realtà è molto diversa. Ma la massa, ovvero la quantità di persone che seguono quel tipo di “tattica”, è enorme. E questo fa la forza, rendendo così una realtà di vita che non esiste, una realtà che allo stesso tempo esiste. Tanto da essere, in questo caso, uno degli stili di vita più diffusi del mondo occidentale. Se in tanti la pensiamo allo stesso modo, qualcosa di irreale può ribaltare la sua forma. Il gamer penso non sia per nulla diverso. Non entra in un mondo virtuale di significati, di loghi, di modi di apparire. Ma entra in uno ugualmente inventato, creato, finto. Tanto finto ma talmente condiviso, che alla fine è reale. Perché se si è in migliaia a chattare, a muoversi per delle risorse, a rientrare dentro dinamiche di potere e di mercato, e soprattutto il nostro umore varia e dipende dall’andamento di quel mondo, e in parte anche il portafogli, allora non si può dire che quel mondo non sia reale.
Alla fine, comprare magliette a 100€ non è molto diverso da passare 10 ore al giorno in un mondo online. E così via, sono probabilmente infinite le realtà parallele che creiamo e che, alla fine, viviamo. Perché nulla è vero e nulla è il suo contrario.
Sofia è gigantesca. Grandi parchi spezzano le catene di edifici sovietici e di nuovi quartieri in stile più “occidentale”. Più colori, più linee, ma in realtà anche molto meno verde. I grandi polmoni sparsi qua e là sono però molto piacevoli.
Nonostante il traffico e la grande quantità di gente, c’è sempre una sorta di “silenzio”, di serietà, caratteristica del suo popolo principale. Sotto gli alberi delle piazze, ogni tanto, appaiono altri gruppi etnici, che arrivano spesso da quartieri più periferici in cui si raccolgono. Davanti al museo nazionale, in un piccolo parco costruito intorno a una fontana, l’atmosfera è frizzante. Molto più movimentata del solito. In una panchina a pochi metri da me siede una famiglia rom. Un uomo, due donne e una bambina. Un’altra donna gli si avvicina, chiedendo una sigaretta. L’uomo dice di sì, ma in cambio vuole vedere il suo seno: lei si avvicina e tira su la maglietta. Tutti cominciano a ridere a crepapelle, bambina compresa. Dopo uno scambio di battute, l’uomo accende un grosso speaker e inizia a mettere musica a tutto volume; al che la donna comincia a ballare e, guardando un gruppo di ragazzi musulmani, inizia lentamente a spogliarsi. L’attenzione dei giovani è presto catturata, e così la donna nel giro di poco resta solo in reggiseno e leggins. Ridendo, senza diversi denti, fa segno ai ragazzi di volere dei soldi per completare il balletto. Il gruppo si avvicina e prende il microfono dall’uomo rom; iniziano a cantare e a dire cose verso la piazza. Altre persone si avvicinano; i bambini ridono. Ogni tanto esce un seno: l’aria è viva.
Al solito, dove ci sono i rom c’è la rottura. La crepa nella regola, nella monotonia, nell’ordine. Con i suoi pro e i suoi contro. Spesso tutto ciò porta all’allontanamento e alle stigmatizzazioni. Ma senza le crepe non c’è cambiamento. E senza cambiamento non c’è vita.
Chiudo il secondo mese di viaggio a Plovdiv, una bellissima città ricca di storia. Sono tantissime le rovine romane, i teatri, le chiese cattoliche e quelle ortodosse, le chiese armene e le moschee. Una città dove tantissime culture si sono mescolate e dove, appena arrivato, vengo fermato da William, un signore belga che si offrirà di farmi da guida per la città. È il suo mestiere, ma per me lo fa gratis. Sono lusingato. Ho il piacere di essere allo stesso tempo ospitato da una splendida famiglia bulgara. Plameba e Anton, la piccola Eba e il fratellino nato da poco. Quando Eba aveva poco più di un anno sono partiti per il Messico e per due anni e mezzo hanno viaggiato in bicicletta, fino a raggiungere Ushuaia. La mia bici pesa uguale a quella di Anton, senza però avere una figlia sopra.
I limiti di ciò che è realizzabile sono immensi.
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Le Immagini
1 – Skopje, Macedonia del Nord
2 – Durmitor National Park, Montenegro
3 – Pristina, Kosovo
4 – Plovdiv, Bulgaria
5 – Montenegro
6 – Sofia, Bulgaria
7 – Durmitor National Park, Montenegro
8 – Skopje, Macedonia del Nord
9 – Kocani, Montenegro
10 – Durmitor National Park, Montenegro
11 – Skopje, Macedonia del Nord
12 – Il Rifugio abbandonato. Durmitor National Park, Montenegro
13 – Prizren, Kosovo
14 – Il Bobotov Kuk, Durmitor National Park, Montenegro
15 – Nel sud della Bulgaria
16 – Prizren, Kosovo
17 – Pristina, Kosovo
18 – Morinj, Montenegro
19 – Prizren, Kosovo
20 – Skopje, Macedonia del Nord
21 – Montenegro
22 – Durmitor National Park, Montenegro
23 – Prizren, Kosovo
24 – Skopje, Macedonia del Nord
25 – Canyon di Piva, Montenegro
26 – Durmitor National Park, Montenegro
27 – Skopje, Macedonia del Nord
28 – Prizren, Kosovo
29 – Pristina, Kosovo