Il Mio Taccuino

Mese 1 – Un Lento Saluto

Cos’è un mese?
È tanto? È poco? È abbastanza?
Prima di partire è sembrato un tempo pienissimo e piuttosto lento. C’erano i lunedì, i giovedì, le domeniche. E poi i -29, -16, -9 alla partenza. Nella routine generale, a volte è un tempo infinito. Oggi tanti nomi e tanti numeri prendono già un significato più sbiadito. A volte scompaiono, finiti nello sgabuzzino della memoria; a volte ritornano, perché magari c’è una partita. O si deve prenotare una stanza.
Ed è solo un mese.
Se proprio devo dargli un tempo, penso che gli darei uno spazio. O una sua direzione. Va in discesa. Non perché sia stato poco faticoso o semplice, ma perché è andato veloce, e nel mentre sono successe una marea di cose.

Dopo un abbraccio a quattro – famiglia completa, con annesso cane un po’ più in basso – gli occhi lucidi mi hanno accompagnato per qualche curva. La strada che ho fatto mille volte con la bici scarica. Un clacson. Mia sorella con Anubi (il cane) che mi superano. Pensieri, pensieri, pensieri. E poi Piazza Maggiore e Andrea. Un caro amico che parte con me.

I primi giorni sono andati così. Il corpo, non troppo allenato, che cerca di capire cosa deve fare. Degli amici, perché già dalla prima sera se ne aggiunge un altro, ai fianchi. O più spesso, più leggeri, davanti. Dei saluti, delle risate, cento “Cosa fai? Raccontami!”.
E così viene la prima notte, in un parco giochi sul Lungo Po, dove ci viene chiesto da alcuni bambini se siamo degli youtuber.
Siete famosi?”.
No, siamo solo carichi.

Così via, fino a Padova, dove veniamo ospitati a casa di Jadah. Un’amica che ha 13 coinquilini e, con noi compresi, 5 ospiti (guardate il suo festival itinerante di corti sonoacorto). Nella notte conosciamo il misterioso Guido, dopo uno sciame di birre e di borghetti (qui il racconto https://reporteronbike.com/padova_notte/). Il tempo di ridere e sognare, per ripartire col sapore dell’alcol ancora in bocca, direzione Treviso. Qui c’è il fratello Federico, ex coinquilino dei tempi delle Marche, quando alla scuola Jack London ci insegnavano come si raccontano le storie.

L’Italia se ne va poco dopo, tutto di un colpo.
Giriamo a un incrocio e non c’è più. Allora si comincia a pedalare davvero, perché la Pianura Padana e i suoi camion sono già diventati il passato. Così la prima salita del viaggio, sotto un sole caraibico, mi fa ricordare quanto effettivamente ami i bar. Penso siano davvero un luogo magico. Tante volte il vero cuore di un paese, dove si possono vedere le rughe e i ritmi, le cortesie e i peccati. E a noi queste cose piacciono tutte.
Una birra dopo una faticata del genere, poi…

Andrea, detto Peppe, mi accompagna fino a Lubiana. Alessandro, detto Betta, si era già staccato a Padova. Ancora il tempo di scoprire la silenziosa capitale della Slovenia, dove ci si chiede se per le strade qualcuno abbia cliccato involontariamente il tasto muto. Eppure la gente c’è.
Iniziano le carni balcaniche e la ricerca del rumore, che la prima notte troviamo alla Metelkova Mesto, il centro sociale anarchico della città (qui la sua storia https://reporteronbike.com/metelkova-mesto/). Una notte che finisce con uno spiacevole imprevisto, di quelli che ti fanno ringraziare la presenza di un amico caro.

Con Andrea se ne va anche il sole.
Così, il primo giorno di viaggio da solo è una lunga doccia. Nella mia testa c’è acqua da tutte le parti. I pensieri affogano in un tormento di dubbi, le motivazioni giornaliere sono troppo a fondo per dare un contributo in superficie. Pedalare è durissimo.
Fino al confine con la Bosnia, tutto è complicato a fasi alterne.

Cosa diavolo sto andando a fare?

I paesaggi verdi e silenziosi sloveni lasciano il posto ai cani randagi croati. All’ottavo che mi corre dietro, enorme, rischio l’attacco di panico. Per poco non vomito. Mi viene da piangere.
La zona di confine è quasi angosciante.
32 ore senza parlare con nessuno. 40 ore chiuso in tenda sotto il diluvio. Finché una signora che mi ha visto mi porta un tè caldo, che mi scalda più il cuore che la pancia.

C’è una tensione silenziosa, sospesa.
Con il maltempo che non aiuta, mi sembra di sentire l’atmosfera della guerra. A 13 km da me c’è Velika Kladuša, negli anni scorsi uno dei principali muri su cui rimbalzavano i migranti del flusso balcanico. Oggi, ancora, una delle zone militarmente più sorvegliate d’Europa.
Io vado al contrario, e alla dogana mi sorridono: “Good luck, Emiliano!”.

Una lumaca è giunta quasi in cima alla borraccia. È ora di alzarsi.

I giorni in Bosnia cominciano a scorrere rapidi. Al contrario di Slovenia e Croazia, c’è gente dappertutto. Chi zappa la terra, chi sta al bar, chi esce dalle moschee, chi pesca. C’è quasi sempre qualcuno, e la cosa mi tranquillizza. Mi torna il sorriso.

Passo per Novi Grad, Prijedor e Banja Luka, capitale della Repubblica Srpska – il territorio serbo dentro la Bosnia ed Erzegovina. Qui vengo ospitato da Dragan, con cui ho la prima vera conversazione dopo 5 giorni di meditativo silenzio. Inizio a scoprire l’accoglienza di questo popolo. Che ad aprirmi le porte siano serbi, croati o bosgnacchi poco cambia: la gentilezza è uguale dappertutto. Conosco attivisti per l’ambiente a Banja Luka e una famiglia che ha vissuto tanti anni a Vicenza, e che mi ospita per una giornata intera il giorno dopo. Sono orgogliosamente serbi, ma col cuore legato all’Italia, e mi coccolano in ogni modo.

Mentre scrivo queste righe, Jin, una ragazza cinese, cerca di capire Asif, pachistano. Dai suoi 64 anni, di cui 44 passati in giro per il mondo, fa scivolare filosofia: “Hai presente prima, quando è entrato Emiliano e lo abbiamo conosciuto? Quello è un altro universo. Quelli sono altri universi che già non esistono più. Ora siamo in un altro, in un altro tempo”.

Giungo a Tuzla, una città industriale che mi ha attirato per la sua storia anti-nazionalista e per il movimento e le ribellioni dei lavoratori. Cuore della Jugoslavia industriale. L’entrata, per diverse decine di chilometri, è di quelle che fanno male. Tubi, gigantesche fabbriche, mostri arrugginiti, fumi, ciminiere: la sensazione è di potersi ammalare al solo passarci di fianco. Di certo, l’anima le sta soffrendo.
Le porte di Tuzla sono gli enormi reattori della stazione termoelettrica. (Leggi qui l’articolo https://reporteronbike.com/tuzla-la-citta-immersa-nel-latte/)

Il nord della Bosnia alterna strade bellissime a incubi di traffico e catrame. Nelle parti di grandi pianure, spesso inevitabili, si soffre. Nelle strade laterali si aprono valli ricolme di pace. Attraverso una di queste, su una lunga strada sterrata, soffia il silenzio sopra il vento. Qualche persona qua e là, un mondo immobile. In un piccolo paese, nel regno della pace, un’anziana signora siede davanti a un campetto da calcio. Su questo è sparsa una formazione di pecore, col modulo a farfalla. Lei guarda il tempo. Sembra un monumento alla pazienza. Mi saluta.

I piani mi portano a Belgrado, ma vado a Sarajevo. Ho scoperto che un carissimo amico è lì per qualche giorno. Non posso perdermelo.
Intanto la Bosnia continua a riservarmi sorprese. Mentre mangio due noccioline a Banovići, una piccola città industriale che vive su una miniera di carbone, due occhi di ghiaccio mi fissano da poco più di un metro.
Capelli chiari, un uomo, parla al telefono.
Non ho il tempo di capire che mi ha già invitato a pranzo. Poi a prendere un caffè. Poi a farmi fare due panini da asporto. Rifiuto la doccia e il letto per la notte. In tutto questo mi racconta anche che al suo bar è riuscito a mettere da parte 2000€ da spedire a Gaza per gli aiuti. In Italia, a parità di stipendi, valgono il doppio. Damir cuore d’oro.
Mi saluta, deve scappare. È venerdì e in moschea è l’ora della preghiera.

Dopo una notte in tenda a due gradi, in un maggio davvero sorprendente, sono ormai a Sarajevo. I giorni qui con Paola e Giovanni passano veloci, in una città che non vuole dimenticare la guerra. Molti segni sono stati lasciati, tanti addirittura vengono enfatizzati. Dimenticare non è saggio. E la pace è troppo bella per rischiare di rimetterla in discussione.
Paola, detta Pola, è qui per alcuni mesi. In tre settimane ha già costruito una rete sociale notevole, così la seguiamo disinvolta tra mercati di periferia e piccoli locali nascosti. (Qui il racconto https://reporteronbike.com/sarajevo-anarchica/).

Questi giorni sono quasi una vacanza, così come quelli che passo a Belgrado.
Raggiungo la grande capitale serba in bus, mentre sciolgo una maledizione dietro l’altra per essere sulle quattro ruote. Mi manca la bici, fin troppo.
Otto ore per andare. Otto per tornare. In un minibus che collega due capitali, stretto a un gruppo di persone che è ammassato dentro come bovini. A Belgrado però c’è Kaća, un’amica che non vedo da sette anni. Vengo accolto da un cuore d’oro. Purtroppo il tempo insieme sarà pochissimo, deve lavorare tantissimo. Mi lascia però il suo appartamento, praticamente per intero. Anche il coinquilino è sempre fuori.
Nella prima giornata di esplorazione il mio spirito è molto simile alla città. Grigio e trafficato. Devo mettere le cuffie e tanta musica per sopportare l’uno e l’altra. Pian piano però scopro piccoli luoghi, angolini piacevoli. Un bar coperto di piante, un sassofono, un parco. Il Danubio maestoso e sofferente. Lui, come me, sta cercando il tasto “muto” che hanno a Lubiana. Se penso però a dov’è scivolato per arrivare fin qui, ho quasi i brividi. Vorrei sentirne lo scorrere, ma ci sono solo clacson.

Belgrado è solo un assaggio, perché dopo appena tre notti faccio ritorno a Sarajevo. Sono tornato, Novella.

Tra le tante cose che scoprirò e che tornerò a scoprire, c’è sicuramente la “libertà”. Facile a dirsi e a pensarci. Eppure ci si deve abituare anche a quella. Assaporarla è qualcosa di lento. Al contrario di una persona, non ha volto. È difficile riconoscerla.

Asif, non appena conosciuto, mi dice: “Non ha senso guadagnare diecimila euro e bere venti caffè. È meglio berne uno solo e godersi di più la vita.”

Arriva in certi momenti, inaspettata, la lucidità che mi fa dire “ti rendi conto che puoi fare quello che vuoi?”. Faccio ancora fatica a crederci.

Se dovessi immaginare un paese della Bosnia, credo che disegnerei Konjic.
Montagne coperte dalla foresta, cime più grandi nude di roccia, casette e minareti, qualche croce, un fiume attraversato da un vecchio ponte ottomano. Qualche fabbrica.
È qui che incontro Jin e Asif. Mi offrono da mangiare.
La cena intera è un monologo. Asif ha molto a cuore il senso della vita, il potere di Dio, il nostro dovere per gli altri.
Jin non capisce. Io taccio e mi sforzo.
L’uomo può costruire il tavolo. Ma non il legno.”
I muezzin cantano mentre scende la notte, riempiono l’aria di qualcosa di etereo.
“Io non credo che dopo la morte vivremo in un altro corpo, fatto di una materia diversa.”
Mando giù un’altra cucchiaiata di brodo.
Io lo so! Perché credere significa supporre, ma questa non è una supposizione. È un fatto!
Jin si lamenta: “Io penso che viviamo dentro un film, che stiamo tutti performando.”
Dici? E tu il film lo guardi o lo vivi?”
Silenzio.
La ragazza dopo un po’ si alza: “Io non sto capendo niente! Però a me piace la natura, per questo voglio viaggiare. Mi fa sentire in pace.
Asif scuote la testa. Mi guarda: “Quella ragazza funziona allo stesso modo del suo cellulare. Sono fatti identici!

La Neretva mi accompagna da Konjic a Mostar, dove chiudo questo primo mese.
Le sue acque cristalline diventano più profonde man mano che procediamo. Ci addentriamo in una profonda gola. Ai lati, montagne sontuose entrano a picco nel fiume, che spesso assomiglia più a un lago.
Sono diversi gli interventi umani in questa valle. Dighe, per lo più, che allargano il bacino del fiume. Il tutto, però, rimane aspro e affascinante, come i dirupi che mi circondano mentre i tir fischiano sull’asfalto.

Durante la notte che chiude il primo mese mi è apparsa in sogno Novella, la nonna. Ci siamo abbracciati. In questo viaggio siamo insieme.

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Le Immagini

1 – Mostar (Bosnia ed Herzegovina)

2 – Bosnia ed Herzegovina

3 – Sarajevo (Bosnia ed Herzegovina)

4 – Slovenia

5 – Sarajevo (Bosnia ed Herzegovina)

6 – Padova (Italia)

7 – Tuzla (Bosnia ed Herzegovina)

8 – Metelkova Mesto, Lubiana (Slovenia)

9 – Padova (Italia)

10 – Il Fiume Neretva (Bosnia ed Herzegovina)

11 – Sarajevo (Bosnia ed Herzegovina)

12 – Sarajevo (Bosnia ed Herzegovina)

13 – Metelkova Mesto, Lubiana (Slovenia)

14 – Bosnia ed Herzegovina

15 – Sarajevo (Bosnia ed Herzegovina)

16 – Sarajevo (Bosnia ed Herzegovina)

17 – Sarajevo (Bosnia ed Herzegovina)

18 – Blagaj Japra (Bosnia ed Herzegovina)

19 – Sarajevo (Bosnia ed Herzegovina)

20 – Stanari (Bosnia ed Herzegovina)

21 – Sarajevo (Bosnia ed Herzegovina)

22 – Sarajevo (Bosnia ed Herzegovina)

23 – Sarajevo (Bosnia ed Herzegovina)

24 – Metelkova Mesto, Lubiana (Slovenia). Ogni tanto qualcuno fotografa anche me.

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