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Nel Fuoco Dei Dervisci Rotanti (Turchia)

Una voce profonda intona un canto. Un coro le cresce intorno ipnotico, finche, dopo un momento di silenzio, il sibilo di un flauto entra nell’aria immobile.
Tra le fiamme divine comincia la danza dei dervisci. L’oscuro ego cade dalle spalle, brucia nel calore, muore nel vortice dei passi verso Dio.
A Konya, nell’Anatolia centrale, i dervisci si liberano come falene nella notte. Un’attrazione irresistibile li porta a ruotare, attratti dal richiamo del divino come la farfalla notturna lo è dalla luce. Ai primi passi lasciano cadere il mantello nero, spogliandosi della propria identità mondana, morendo a se stessi. Nel turbine della rotazione, perdono la consapevolezza di sé, del proprio corpo e del mondo circostante. Il sé individuale si annichilisce nell’oceano divino. La falena si getta nella fiamma.
Come l’insetto che muore nel fuoco, il derviscio, attraverso la morte dell’ego, sperimenta una rinascita spirituale in uno stato di pura coscienza divina.
Tra le strade di Konya brucia un palazzo. Nonostante l’intervento dei pompieri, i muri crollano uno dopo l’altro, i mattoni si polverizzano, le finestre alimentano il soffio della distruzione fino al loro ultimo sospiro. Poi cadono anche loro.
Arde il fuoco nella capitale dei dervisci rotanti, dove nel XIII secolo il poeta mistico Rumi, conosciuto anche come Mevlana, ne fondò l’ordine. Oggi è il luogo simbolo del sufismo, dove si trova la confraternita dei dervisci più rilevante e la danza è ancora un importante evento spirituale.
Nel sufismo il fuoco identifica in senso metaforico l’amore divino: un amore ardente e irresistibile, una forza divoratrice che brucia l’ego e trasforma l’essere umano da creatura egoista in un servo amorevole e puro di Dio.
Il processo è lungo e doloroso, ma allo stesso tempo conduce a un’estasi chiamata Wajd.
La danza rotante dei dervisci Mevlevi è una rappresentazione fisica e cosmica di questo fuoco spirituale. Il mantello nero che indossano (Hirka) simboleggia la tomba dell’ego e degli attaccamenti mondani. La gonna bianca (Tennure) è il sudario dell’ego ormai morto. Il cappello di feltro (Sikke) ne è la lapide tombale. Quando il derviscio inizia a ruotare, getta via il mantello, liberandosi dell’ego e dei legami terreni. Il movimento genera un calore interiore, un’estasi che è il fuoco dell’amore in azione. Il derviscio diventa egli stesso il fuoco, un fuoco purificatore che collega la terra al cielo. Il Maestro, il Shaykh, osserva su un tappeto rosso. Egli è il punto fisso, il riferimento divino verso cui tutto converge: il sole attorno a cui ruotano i pianeti.
Durante il Sema, ovvero la danza, ai canti si unisce il suono del ney, un flauto di canna. Le sue note sono il lamento dell’anima separata dalla sua origine divina, il soffio che alimenta il fuoco della danza. Così, dalla sofferenza patita durante il fanā, si raggiunge il Baqā, lo stato di rinascita spirituale che si consegue dopo che l’ego è stato bruciato. Non si è più annientati, ma si vive in uno stato di coscienza divina permanente.
La falena, quando interrogata sull’amore, non può resistere alla chiamata della fiamma, anche se questo significa la propria distruzione, perché in quella distruzione trova il suo compimento e la sua vera vita.
Una colonna di fumo biancastro si alza tra i palazzi di Konya. Immersi nella sua nebbia, dei bambini siriani continuano a giocare nello spiazzo in cui si ritrovano ogni pomeriggio. I raggi del sole iniziano a confondersi con le fiamme del palazzo. La città, nel suo dolore, sta cambiando ancora.

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