Padova, notte.
Il buio dei vicoli non è mai silenzioso. Nelle pieghe dell’ombra, tra l’odore di vecchie pietre e sigarette senza filtro, incontriamo Guido.
Ha 65 anni, ma le sue mani – solcate come mappe di viaggi mai finiti – hanno la stessa inquietudine di un ventenne. Violoncello, chitarra, pianoforte. Strumenti che ha suonato con Bennato, con altri, con nessuno. Ora suona per sé, per i morti, per i versi antichi che gli bruciano in gola.
Ci invita nel suo studio, un teatro di oggetti fedeli: flauti che hanno attraversato mari, tamburi con la pelle tesa come vele, un violoncello che non ha mai smesso di cantare. Niente qui è abbandonato – ogni strumento aspetta solo il suo momento.
Iniziamo a suonare. Non è musica, è un dialogo senza lingua. Poi, improvviso, Guido si ferma. Gli occhi si accendono di un fuoco antico, le mani disegnano rotte nell’aria.
“Al di là delle Colonne c’è solo ciò che portiamo con noi…”
La sua voce è una corrente che trascina. Non più l’Odissea, ma il richiamo dei limiti infranti, dei viaggi che bruciano nelle vene. I suoi versi si intrecciano al fumo, al sudore, al ronzio degli strumenti che tacciono per ascoltare.
Le ore passano. Non c’è più un prima o un dopo. Solo questo: corpi che suonano, raccontano, ridono di cose perdute. Liberi, perché la notte è un confessore che non giudica.
A tarda notte, usciamo. La città è vuota. Guido rimane lì, tra i suoi strumenti e i suoi fantasmi.
(Questo articolo è stato co-creato con strumenti di IA)