Dalle rocce del monte Fengari scendono lacrime gelate. Si infilano nei canyon, rinfrescano le vene della terra, accarezzano la nostra pelle. Ci sono luoghi che nessuno sa esistere, dove solo le acque possono arrivare, e da cui solo loro possono andarsene. Anche il coraggio trova dei limiti nelle spaccature di pietra, che si fanno sempre più accoglienti quanto più la forza dello sguardo riesce a spingerlo in alto. Oltre il muro, però, non si procede mai. Qualche angolo rimane per sempre un segreto.
Il vento corre sulle pietre. Si arrampica sugli alberi, sfiora le onde e mescola il paesaggio nei suoi più piccoli disegni. Siamo sempre in un luogo diverso, ogni minuto. Vorremmo essere una libellula; ci guardiamo con un sorriso complice, mentre il silenzio, tenebroso, scivola lentamente dentro di noi. L’occasione di non fare nulla è immensa, tanto che alla fine ci riesce anche chi non ci prova. Si impara a nuotare senza nemmeno essersi accorti di essere nell’acqua.
Il tempo scompare, si fonde con le nuvole. Il sole prende il posto della luna, le stelle sono sassolini, le galassie fiumi. La terraferma è lì, di fronte a noi. Eppure sembra così lontana. Il nostro mondo non ha lati né dimensioni. Non c’è gravità, non c’è ora. L’alba è un fuoco che esce dal buio, un viso nuovo ogni volta. Nonostante si provi ad avere un luogo, un momento, un rituale per tenere il ritmo delle cose, si finisce sempre per perderlo nell’illusione di tenerlo in mano.
Sull’isola di Ogigia sbarcano in tanti. Un’emozione confusa si fa presto padrona del loro sangue, li prende e li spoglia.
Nudi fuori e nudi dentro, avvolti dai rami e dalle correnti, cominciamo a respirare. Non ci accorgiamo che i giorni diventano settimane, i minuti uccelli, gli occhi sono le lancette di un orologio.
C’è un popolo che si mescola, si perde e si ritrova. Che cerca e si lascia andare, cadendo giù per le cascate e sprofondando nelle piscine. E quando si ritrova, ormai al largo nel mare, apre gli occhi, ed è di nuovo al principio. Come se rinascesse, ricomincia.
C’è però anche un popolo che ci guarda arrivare. Ci osserva mentre dormiamo, mentre vomitiamo il nostro sé, mentre amiamo una mano che sfiora la nostra pelle. Ci guarda poi combattere per ripartire, malinconici girarci verso l’Isola, mentre la schiuma disegna la scia del nostro addio tra le onde.
È il popolo che qui è nato e non lascia mai la sua terra. Il popolo indigeno di Samothraki. I suoi occhi si illuminano nella notte. Ci guardano dai monti, nelle piazze e tra i muretti, si infilano tra gli accampamenti e i pensieri. Una fievole luce a volte ne mostra le corna e la barbetta selvaggia. Quando il cielo è oscuro sono dappertutto, basta cercarli. L’ovino che sospira segreti al chiaro di luna, il felino che parla di noi, il corvo che veglia il tramonto sul ramo secco della spiaggia. Ci lasciano vivere l’inganno e la scoperta come avessimo da poco urlato il primo pianto, quello che apre i polmoni la prima volta.
L’inquietudine finisce sempre per mescolarsi con la gioia. Diventano compagne del risveglio, amiche del coricarsi. Melodie nell’aria del sentiero. Così nella foresta ci sentiamo come foglie. Guardiamo i platani antichissimi pensando che noi quelle radici profonde non le avremo mai, ma che qualcuno potremmo comunque abbracciarlo così forte, come fanno loro con la loro terra.
Non sappiamo quando siamo arrivati. Non sappiamo se andremo via. Dopo un po’ non saremo più nemmeno sicuri di esserci mai davvero stati.