Si può dire che Gaziantep sia il “capoluogo” siriano in Turchia: di circa due milioni di abitanti, uno su quattro proviene dal paese arabo. O almeno era così fino a prima della caduta del regime di Assad. Da diverse settimane ero alla ricerca di contatti in questa città, che fossero di ONG, di persone che la vivono o che l’hanno vissuta. Mi sarebbe piaciuto respirarla e raccontarla, cercare di coglierne le sfumature e i graffi della convivenza tra il popolo turco e quello siriano. Le porte che si sono aperte e quelle che sono rimaste chiuse dietro la rabbia e la stanchezza, dovute in buona parte a una crisi economica che ormai da più di un decennio non dà tregua al paese. La più classica delle accuse è alla base della discriminazione verso i siriani: ci rubano il lavoro. Inoltre, come è normale che succeda in una popolazione di 500 mila persone provenienti da un paese con una storia disperata, si sono registrati diversi casi di violenza con siriani come colpevoli. Fare di tutta l’erba un fascio, talvolta, è la soluzione apparentemente meno difficile, e così per molti turchi i siriani sono solo un brutto problema di cui sbarazzarsi il prima possibile.
Purtroppo, però, tra le persone che riesco a contattare nessuno vive più a Gaziantep, e le ONG non ne vogliono sapere di collaborare.
Mi ritrovo così ospite di un argentino, trovato su Couchsurfing. A casa di Carlos trovo anche Faizan, un afgano con passaporto britannico, con i quali condivido un paio di giornate di esplorazione da veri turisti. Musei, cibo di ogni tipo, caffè, gite fuori porta nei luoghi più iconici e così via. L’ospitalità di Carlos è da vero musulmano: non riusciamo praticamente a pagare mai nulla. Couchsurfing, per chi non lo conoscesse, è una piattaforma online che serve a conoscere persone mentre si viaggia e a trovare un letto, o un divano, dove dormire, venendo ospitati da qualcuno del posto. Il prezzo è uno scambio di storie, tempo condiviso ed esperienze. In tutto il mondo la comunità di questa app è immensa, con centinaia di migliaia di persone. Di fatto è uno splendido mezzo per conoscere una città e chi la vive, e per risparmiare soldi preziosi. Ovviamente la variabile è che non sai mai chi ti trovi davanti: se ci andrai d’accordo, se ti lascerà del tempo libero, se vorrà a tutti i costi organizzarti la giornata. È di fatto come giocare alla roulette: in che modo vivrò la prossima città?
Riparto in direzione Şanlıurfa, ancora in Turchia ma di fatto verso un nuovo mondo: sto entrando nel territorio dei curdi. Pedalo tra immensi campi di pistacchio e ulivi, tra cani che dormono all’ombra e cavalli che trainano carri su strade sterrate e polverose. La Siria appare tra la foschia lungo l’orizzonte secco e ondulato. Bambini che vendono limonate mi accolgono con urla ed eccitazione nel minuscolo villaggio di Keçikuyusu, dove man mano che passano i minuti arrivano sempre più persone a salutarmi e a vedere chi sono. Non mancano i regali tra cibo e bibite fresche, così come gli sforzi per tenermi lì il più a lungo possibile. Lungo la strada sono tanti i sorrisi, i saluti, chi si mette la mano sul cuore, chi mi ferma per una foto. Tornato sullo stradone principale faccio pausa a un benzinaio, che appare più abbandonato del solito. Un ragazzo mi accoglie con dolcezza e mi lascia silenziosamente mangiare all’ombra, seduto a un tavolino. Dopo poco però lo raggiunge il fratello, che subito attacca bottone. “Le ragazze italiane sono davvero belle! Ma lui è frocio lo sai?”. Con fastidiosa disinvoltura continua a prendermi il telefono, a scattarsi foto e a scrivere sul traduttore. “Portami via, qui non c’è vita, non c’è futuro. Non si può fare l’amore. Portami in Italia! In Italia si scopa!”. Comincia a farmi innervosire. Con crescente insistenza spinge perché chiami qualcuno in Italia, ma rifiuto categoricamente, finché gli chiedo perché è tanto insistente. “Voglio vedere delle belle ragazze! Chiamale!”. Se il mio era già un no al 100%, lo diventa al duemila. Non gli darei in pasto neanche l’ombra del ricordo di una qualsiasi amica o donna che conosca, e tantomeno di una sconosciuta. Ho già interrotto il pranzo e mi sto spalmando la crema per andarmene. L’amico mi guarda imbarazzato, leggendo il mio fastidio. “È matto. Gli piace scherzare”. Mi alzo per andarmene, ma l’uomo mi prende per un braccio e mi rimette seduto. Mi trattiene con forza. “No! Fa caldo! Resta qui! Non andare via!”. Mi divincolo e lo fulmino con lo sguardo, me ne vado. “Bye bye George! Bye bye!” Continua a urlarmi finché può vedermi.
Il nervoso mi rimane addosso e mi passa completamente la voglia di interagire con qualsiasi essere umano. Poco più avanti, appena attraversato il fiume Eufrate, vengo rincorso da dei bambini. Invece di gridare “Hello” gridano “Money, money!”. Li mando a fare in culo col pensiero e proseguo.
Mi tornano alla mente altre parole del benzinaio: alla sua domanda se in Italia ci sia acqua, avevo risposto di sì, e lui mi aveva guardato con il viso disperato: “Qui è tutto deserto. Non c’è acqua, non c’è niente. Non c’è vita”. I bambini probabilmente hanno tutte le ragioni del mondo a chiedermi dei soldi. Siamo in zone dove le storie e la vita sono durissime, dove ci si ammazza quasi senza tregua da quando si scrive la storia. Però l’omofobia e il sessismo, oltre un certo limite, non li riesco proprio a tollerare. Se poi sono nervoso e stanco, essere visto prima come un “dollaro” che come un umano nemmeno. Ci sono 39 gradi. Il sole sta calando e trovo un benzinaio piuttosto malmesso che sembra essere un ottimo posto per dormire. Chiedo il permesso per montare la tenda: “Sono italiano” – “Sono Turcano”, mi risponde il più anziano, che chiama i ragazzi più giovani perché non sa leggere. Ottengo uno strano sì, di quelli colmi di gentilezza ma che suonano più come un “sì, ma…”. Ma è troppo difficile conversare senza avere una lingua in comune, e quindi mi dicono “Vai, vai”.
Mi sistemo tra degli alberi, su della terra smossa colma di spazzatura e vetri rotti. Almeno c’è l’ombra. Me la prendo comoda e mi siedo a osservare ragazzi e bambine che puliscono lo spiazzo di cemento che ho davanti. Escono da un grande capannone che stanno lavando, in cui immagino ci sia appena stato un matrimonio. Pian piano, però, iniziano ad arrivare una macchina dopo l’altra. Il parcheggio si riempie velocemente, da autovetture che cadono a pezzi escono intere famiglie elegantissime. Ogni volta che si apre uno sportello non sai quando smetterai di contare le persone: sei, sette, otto, nove. Il matrimonio deve ancora iniziare.
I primi bambini cominciano ad avvicinarsi curiosi e a fare domande. Sono educati, quasi timorosi. Dopo alcuni minuti mi lasciano e capisco che è il momento di montare la tenda. Ma è troppo tardi, ho temporeggiato troppo. Arriva una seconda ondata e nel giro di pochi secondi mi trovo avvolto da bambini e ragazzini, un po’ come se fosse arrivato uno sciame d’api all’improvviso. Saranno venti, forse trenta, e continuano ad arrivarne. Mettono le mani dappertutto, mi smontano il sellino della bici, mi chiedono cento cose. Anche i più carini, che cercano di aiutarmi a montare la tenda, sono spesso più dannosi che utili. Alcuni diventano davvero pesanti. Un gruppetto con a capo il più bullo inizia a chiedermi con insistenza se io sia musulmano. Continuano a farmi il gesto della gola tagliata. “Lo sai, ai cristiani qua tagliano il collo”. Faccio finta di non capire e parlo d’altro. Non mi fanno paura, mi fanno solo girare le palle. Se solo sapessero che ho passato un anno con dei loro coetanei che se li mangerebbero vivi, e che la lama di un machete me l’hanno davvero appoggiata sul collo, in un delirio da stupefacenti, sussurrandomi “ti taglio la testa…”. La mia pazienza è quasi infinita, quindi reggo al gioco, mentre cercano di farmi paura in tutti i modi. “Qua è pieno di serpenti! E di notte vengono i cani!”. Qualcuno si azzarda a dire che ci sono pure i leoni. Uno di loro finge di avere un coltello in tasca e minaccia di piantarmelo nella pancia. La vera fortuna, però, è che se anche mettono le mani un po’ troppo in giro, non si azzardano a prendere nulla. Se fossi stato in questa situazione in Ecuador, tra i miei piccoli fratelli del quartiere Cristo Vive, mi sarebbe sparita la metà della roba.
Ogni tanto arriva un adulto a salutare, o qualche bambino si avvicina più timido e mi dice qualcosa di carino. Del resto, il delirio. Tra una cosa e l’altra mi ci vuole un’ora a montare la tenda e a mettere tutto dentro. Proprio nel momento in cui ce l’ho fatta, arrivano due ragazzi più grandi, di cui uno elegantissimo, forse lo sposo. Finalmente qualcuno autorevole: con due parole zittiscono lo sciame, in venti secondi non c’è più un bambino. Mi chiedono scusa e mi invitano dentro alla festa. Sogno di dire di sì, ma rifiuto. Non lascerei la tenda sola lì fuori neanche sotto tortura. È prestissimo, ma mi chiudo dentro. Il piano da ora in poi è quello di fingere di essere morto: so che la calma durerà poco.
Dal capannone esce musica a un volume assordante, c’è un casino atroce. I bambini fanno ritorno a piccoli gruppi per stuzzicarmi. Sento gridare qualche “motherfucker”, qualcuno si avvicina e fa finta di abbaiare. Poi mi vola una lattina di Coca-Cola piena, ma aperta, sulla tenda. Faccio finta di niente, continuo a farmi gli affari miei. Non gli darò nessuna soddisfazione. Quando arrivano gli adulti però apro: mi hanno portato la cena. Dopo poco più di due ore da quando mi sono chiuso dentro, sento sbattere sportelli di macchine. La musica cala. E poi, improvvisamente, silenzio. Sono solo le 21:15. Un miracolo.
I cani non arrivano, così come i leoni.
Quando mi sveglio la mattina, il benzinaio sembra essersi fermato nel tempo. Un ragazzo dorme su una panca, uno su un divano all’aperto, un altro su una sedia coi piedi sul tavolo. Un uomo anziano legge il Corano a bassa voce seduto per terra, con le gambe incrociate. Mi fa un cenno con lo sguardo.
Non voglio parlare con nessuno. Non voglio incontrare altri esseri umani. Non faccio però nemmeno 500 metri che una macchina mi ferma. Un ragazzo siriano mi regala dei fichi e se ne va. Come a dire, già nei primi 30 secondi della giornata, che il giorno prima sarà stata solo una brutta parentesi, quasi come se il mondo volesse scusarsi in fretta.
Alcuni minuti più tardi, a pochi chilometri da me, vedo sorgere Kobane. La stavo aspettando. Gli scheletri dei palazzi grigi tagliano l’orizzonte oltre i campi coltivati. Si vede il grosso muro che separa la Turchia dalla Siria. Ed eccolo lì, il centro della resistenza curda siriana nel Rojava, la cittadella che ha resistito all’assedio dell’ISIS per lunghi mesi infliggendo allo Stato Islamico una delle sue prime grandi sconfitte; di fatto mostrando al mondo che non era invincibile. Simbolo della vittoria curda sull’ISIS, ma anche simbolo della lotta curda per l’autodeterminazione contro la Turchia. Dalla liberazione dall’ISIS nel gennaio 2015, infatti, la città è stata bersaglio dell’esercito turco e dei suoi cecchini, che ritengono i suoi combattenti, l’YPG, un braccio del PKK: terroristi. La situazione è però molto più complessa di così. La Turchia non può accettare un altro stato curdo indipendente tanto vicino al proprio confine. Inoltre, in quei territori combatte per un grande potere: quello sull’acqua.
Se è vero che da pochi mesi Ankara ha ritirato le proprie truppe dal territorio siriano, la situazione, in particolare intorno alla diga di Tishreen, rimane molto delicata.
Ripenso alle parole del benzinaio. “Qui è tutto deserto. Non c’è acqua, non c’è niente. Non c’è vita”.
Nelle aride zone dell’Anatolia sud-orientale la Turchia ha da anni messo in atto il piano GAP. Un enorme progetto di dighe e stazioni idroelettriche sui fiumi Tigri ed Eufrate. Il piano è quello di ridare vita a queste terre, renderle più fertili e più autonome a livello energetico. È un piano, però, anche di grande controllo: sia sui territori turchi abitati dai curdi, dove aumenta la presenza di rappresentanti governativi, che sulla Siria e l’Iraq. La Turchia in questo modo controlla i flussi dei grandi fiumi grazie ai quali i due paesi più a sud sopravvivono, di fatto gestendo un grande rubinetto geopolitico.
Mentre scorro lentamente i pensieri su Kobane, vengo risvegliato dal suono di un clacson: una donna senza velo mi saluta da una macchina. Un fatto inusuale di questi tempi, in queste terre islamiche dove raramente una donna mi rivolge la parola. Sembra un segnale, proprio mentre guardo il Rojava, terra di grandi donne guerriere.
A fine giornata arrivo a Şanlıurfa, dopo aver cercato per ore di evitare gli incontri umani in ogni modo, e dove invece ho continuato a ricevere acqua e cibo a più riprese. Sono dentro al mondo curdo della Turchia.
Qui sono di nuovo ospite di un ragazzo trovato su Couchsurfing. Ismail è un vero patito di cinema, ossessionato direi. Mi dice che ha visto più di duemila film, e non fa altro che guardarne di nuovi, ininterrottamente, dal telefono. Sono ospite in quello che di fatto è un hotel. Una vecchia casa tradizionale, bellissima, che Ismail ha sistemato e trasformato in alloggio per turisti. Il mio letto è sul terrazzo, praticamente sul tetto. Ismail mi lascia molto libero, e nei rari momenti insieme continua a guardare film. Al massimo mi chiede se ne ho visti tra quelli che conosce, snocciolando un lungo elenco di cui conosco poco e niente. Il primo giorno in giro per Şanlıurfa è piuttosto sconvolgente. La città è un fiume umano in piena, una rapida in una valle stretta. Il bazar è tra i più belli che abbia mai visto, ed è enorme. Ogni volta che cambio direzione mi ritrovo in un ambiente completamente diverso. Cambia l’architettura, la luce, le persone. Mi sembra di essere nel mercato di uno dei pianeti di “Star Wars”, dove le facce intorno sono assurde, tutte diversissime una dall’altra. Tra i vicoli della città vecchia invece cala improvvisamente il silenzio. Le strade sono tornanti che salgono e scendono, coperte di escrementi di piccione. Nel labirinto è facile imbattersi in edifici crollati, tra i quali si scorgono persone nascoste, infilate tra le macerie a fare chissà cosa. I veri padroni della distruzione lasciata dal terremoto del 2022 però sono i gatti, che a grandi gruppi osservano i passanti come vedette. Şanlıurfa mi intimorisce e mi affascina tremendamente allo stesso tempo. È la prima volta che non mi sento del tutto sicuro in un luogo, ma non riesco a fermarmi. La prima sera mi ritiro un po’ frastornato, come se non fossi ancora pronto per capire una città del genere. Poco prima, mentre stavo uscendo dai vicoli ormai scuri, un gruppo di bambini e bambine mi ha mandato baci mentre mi allontanavo verso il mio alloggio. Avevano dei visi bellissimi. Non so se fossero curdi o siriani. Ma mi hanno detto che quei vicoli misteriosi e pieni di macerie sono più accoglienti di quel che sembra. Mi hanno detto di tornare. E devo farlo, perché al primo round non ci ho capito niente. E così faccio i due giorni successivi.
Şanlıurfa è principalmente conosciuta per essere il luogo di nascita del profeta Abramo. Il complesso sacro di Balıklıgöl ne è il cuore pulsante, meta di migliaia di pellegrini da tutto il mondo. Nelle acque del suo lago si dice sia avvenuto il miracolo che salvò Abramo: dopo che il re Nemrut, a seguito di una predizione che annunciava la sua deposizione per mano di un bambino, fece giustiziare tutti i neonati, Abramo venne nascosto in una grotta. Scoperto anni dopo, ormai giovane, per aver distrutto gli idoli del re, fu condannato al rogo e catapultato tra le fiamme. Ma Dio intervenne, trasformando il fuoco in acqua e i tizzoni ardenti in carpe. Da allora esiste questo lago sacro, oggi avvolto da giardini e moschee, e protetto dall’alto dall’antico castello della città.
Nonostante questi luoghi di forte spiritualità, i luoghi che mi attirano di più rimangono gli stretti vicoli, i capillari pieni di vita della città vecchia. La mia timidezza nei suoi confronti si dissipa lentamente. Durante il giorno, quando i muri scottano per il sole tremendo, gli unici abitanti sembrano essere quasi solo i bambini. Al mio passaggio c’è chi scappa, chi mi segue, chi mi osserva paralizzato o chi chiede una foto. Gli adulti, per lo più, mi osservano di nascosto da dietro le finestre, chi dallo spioncino della porta. Mentre guardo la città dall’alto un uomo mi si avvicina e mi chiede se sia già stato derubato nel labirinto, poi se ne va. Col passare delle ore il sole lascia le strade e il mondo finalmente riprende vita. Mi ritrovo ora a parlare con un sacco di persone. Vengo accolto in un forno, dove vengo fatto entrare trionfalmente tra chi stende farina, chi inforna e chi condisce. Sono tanti i curiosi che mi guardano da fuori. Appena a fianco, lungo la strada, conosco Halil, un uomo che gestisce un piccolo negozio di stampe fotografiche. Passo lunghi lassi di tempo con lui a bere tè, a parlare in un inglese stentato ma efficace, e a osservare le persone. Vende immagini di ogni tipo: paesaggi, città iconiche, personaggi famosi, soldati. La cosa che più mi stupisce è però che quelli che vedo vendergli di più raffigurano Il Padrino, vari personaggi di aspetto mafioso e un coreano con un gilet di piumino nero e gli occhiali da sole, estremamente tamarro. Sogna di comprare una macchina fotografica e di spostare il proprio negozio su una strada più trafficata. Dove si trova ora gli affari sono duri.
Si crea così una piccola zona dove nel giro di un paio di giorni mi conoscono tutti. Di giorno vengo a bere il tè con Halil e a chiacchierare con la gente, di sera ripasso a raccogliere gli inviti ricevuti: l’ospitalità è a dir poco travolgente. L’ultima sera prima di ripartire sto chiacchierando con Halil, che mi ha già invitato a cenare a casa sua non appena chiuderà il negozio. Dal negozietto di fianco il giovane Mohammed mi porta una piadina ripiena di carne e verdure piccanti. Non faccio in tempo a finirlo che dal forno vengo richiamato. Non sia mai che non passo a salutare anche loro. Mi ritrovo nuovamente dentro la cucina, rimpinzato con delle “pizze” che producono a nastro. Se ciò non bastasse, una famiglia che ha ordinato teglie di verdure e di pollo al forno me ne preparano un piatto prima di andare a mangiare a casa. Nel giro di poche decine di minuti colleziono tre cene. Torna Halil a chiamarmi: è ora di andare a casa. A cenare.
La gentilezza di Halil e di sua moglie è talmente profonda che non posso non sedermi a mangiare nuovamente. Con mia sorpresa ci sediamo a “tavola”, ovvero sul tappeto, tutti insieme, con anche la moglie e l’unica figlia presente. Di quattro figlie è l’unica a non essere ancora sposata, e mi chiedo se sia per questa ragione che si possa sedere a fianco a me. Nelle ultime settimane, agli inviti, le donne avevano sempre preparato e portato il cibo, ma mai si erano sedute con noi a mangiare. Si è sempre rimasti solo tra uomini.
Lascio “Urfa” con una mezza indigestione e con la pancia ribaltata. Il giorno dopo però la generosità delle persone non mi dà tregua. Continuo a ricevere cibo in abbondanza, da macchine che si fermano per strada o da persone che mi vedono passare davanti a casa. Le mie batterie sociali non si sono ancora del tutto ricaricate, e cerco di evitare le persone il più possibile. Sono stanco delle solite conversazioni in cui non capisco mai niente che esca dalle stesse domande di routine, alle quali ormai so invece rispondere come un nastro registrato, nonostante mi vengano fatte in turco: da dove vieni? Quanto ci hai messo ad arrivare qui? Quanti anni hai? Sei sposato? Sei da solo? Che lavoro fai? Un elenco che si ripete più e più volte al giorno. La realtà è che però sono tutte persone gentilissime, accoglienti, e che semplicemente sono curiose e interessate a me. Dopo tanti giorni sono stanco, ma nel profondo vorrei che tutto il mondo fosse così aperto all’altro. In certi momenti mi sento quasi in colpa a cercare di evitarle, ma devo anche accettare che non tutti i giorni si può avere l’energia per essere aperti al mondo.
In ogni caso, che io voglia o no, è inevitabile. Nei giorni successivi avanzare diventa quasi un’impresa. È un continuo di inviti a casa, di persone che mi chiamano per bere un çay, di regali. Ogni 20-30 minuti di pedalata rimango fermo da qualcuno per altrettanto tempo. A volte dire che sono stato ingozzato appena mezz’ora prima sembra una dichiarazione incomprensibile, tanto che mi viene richiesto tre o quattro volte se sono sicuro di non voler mangiare. In ogni caso non c’è scampo, perché se non mangio con loro, il cibo me lo devo comunque portare via. C’è addirittura chi cerca di regalarmi dei sandali, viste le condizioni dei miei, che ormai da settimane sono un ammasso di scotch che cerca di tenerli insieme. Il numero 46 però da queste parti non esiste. Attraverso campi di tabacco e la città di Adıyaman, poi inizio a inerpicarmi tra le montagne. Giungo all’antico ponte romano di Cendere e poi al castello di Kâhta, dove decido di montare la tenda prima di affrontare, il giorno successivo, la temibile salita per arrivare in cima al Monte Nemrut.
Dormo sull’erba secca tra le montagne vicino a una gola magnifica. La luna è luminosissima e fa brillare i campi che mi circondano. La notte è silenziosa fino a quando vengo improvvisamente svegliato da dei lamenti. Dalle rocce del canyon arrivano delle strane urla, le stesse che avevo già sentito sul fiume Evros, al confine tra Grecia e Turchia. Sembrano tanti gatti che urlano insieme. O ancor di più delle anime che piangono dall’inferno, straziate e strazianti. Fanno un po’ paura. Ma rimangono lì, nell’aria e nella gola, finché non tacciono.
Al risveglio ho la compagnia di una piccola volpe che gira nei pressi della tenda, un anziano signore con una lunga barba bianca passa silenzioso a cavallo di un asino.
Comincio la mia via crucis. Faccio scorta di zuccheri, noccioline, sali minerali e acqua, e pian piano inizio a snocciolare a zigzag la ripidissima salita. Ci metto più di sei ore a fare appena 16 km, con circa 1500m di dislivello. A un certo punto dell’arrampicata mi sono dovuto fermare in preda alle risate. Il livello di endorfine deve aver raggiunto dei picchi altissimi, poiché senza ragione alcuna mi sono trovato con le lacrime agli occhi, a ridere da solo nel silenzio di un canyon desertico.
In cima al Monte Nemrut, a 2.150 metri di altitudine, sorge un meraviglioso sito archeologico voluto dal re Antioco I Theos di Commagene nel I secolo a.C.. Oggi sono visibili le grandi teste delle imponenti statue che un tempo decoravano il sito, un complesso che fungeva da tomba-santuario per il re e da luogo di culto per un sincretico pantheon di divinità greche e persiane.
Qui conosco Eymen, un ex giornalista turco che mi racconta quanto sia difficile oggi la realtà per chi fa il suo lavoro. Negli anni passati aveva pubblicato delle informazioni su dei testimoni che erano stati nascosti, relazionati a dei crimini pesanti che erano stati compiuti da personaggi di rilievo. Il governo aveva oscurato tutto. Nel giro di poco tempo si è dovuto licenziare, a seguito di minacce di arresto per divulgazione di dati pericolosi. Oggi, dopo anni, vuole tornare a fare il suo mestiere. O almeno provarci. La libera informazione in Turchia è in enorme difficoltà.
La discesa dal monte mi porta verso la città di Diyarbakır, quella che viene considerata come la capitale dei curdi in territorio turco. I chilometri per arrivarci sono lunghi e monotoni, ornati dalle classiche distese di erba secca e pietre che si allungano a perdita d’occhio. Il viaggio diventa tra le mie fantasie e i miei ricordi, tra i sogni e le idee, interrotti solo ogni tanto da qualcuno che si ferma per regalarmi qualcosa o da qualche grosso cane morto al lato della strada.
A Diyarbakır il benvenuto è meraviglioso. Sono ospite di Ferrat, trovato sempre tra chi offre ospitalità tramite le app di viaggiatori. Quando arrivo è ancora al lavoro, e mi dice di aspettare seduto vicino a casa. Nel giro di pochi minuti vengo accerchiato da bambini curiosi, fortunatamente molto gentili. Una prima macchina con dei ragazzi si ferma a chiedermi se sono amico di Ferrat: “Benvenuto! Siamo suoi amici!”. Poco dopo giunge un uomo più anziano:”Ferrat? Vieni, ho le chiavi!”. Pare che tutti lo conoscano e che sappiano che ospita viaggiatori, principalmente ciclisti. Il folto gruppo di bambini mi aiuta a scaricare la bicicletta e si incarica di portare tutte le borse dentro l’appartamento, che sanno perfettamente dov’è. Lasciano tutto in ordine all’ingresso e mi salutano, per poi bussare alla porta poco più tardi e lasciarmi un bigliettino scritto da uno di loro: “Ciao Emiliano, benvenuto in Turchia. Il mio nome è Hogir. Ti voglio bene”.
Che bacio al cuore. Penso ancora ai bambini terribili della sera al benzinaio, e ai salti continui che ogni giorno questa vita mi fa fare. La sera prima di arrivare a Diyarbakır andavo a dormire pulendo la diarrea che una piccola gattina mi aveva fatto dentro la tenda. Oggi ho un letto a due piazze e un intero appartamento solo per me.
Nelle giornate in città mi rilasso molto. Lo spazio privato è una gioia rara, Ferat lavora tutto il giorno e la sera mi raccoglie per portarmi un po’ in giro. Ha 47 anni e fa il maestro, ma produce vino in delle terre fuori città ed è un dj di musica psy-trance. Così, dopo circa un mese, frequento un luogo con musica, dove posso conoscere persone, ballare, bere birra. La vita con Ferat, per i pochi giorni che condividiamo, è una bolla alternativa in un mondo di viaggio che è per la maggior parte del tempo musulmano e conservatore. Personalmente sono profondamente più interessato a vivere una realtà così diversa dalla mia, dove devo adattarmi ma dove ho tanto da scoprire e conoscere, ma qualche volta una bella serata più libertina ci sta davvero bene. E così ben venga il tango, ben venga la techno, la galleria d’arte e le ragazze con i capelli scoperti.
A Diyarbakır la presenza curda si fa sentire, così come la vicinanza alle zone di conflitto con l’esercito turco e alla Siria. Sui cieli della città passano di continuo dei caccia da guerra e la presenza militare è massiccia. Ogni pochi isolati c’è un’area dell’esercito. A sud-ovest, poco lontano dalla città vecchia, sorge una grande base aerea. Muovendosi per la città il bluetooth delle cuffie salta continuamente, perde la connessione o ha forti interferenze. Il GPS impazzisce, parte in direzioni casuali, gira intorno, perde continuamente rotta e posizione. E così continua tutta la strada fino a Mardin, per quasi cento chilometri. Cuffie e GPS si riprendono, ma ogni pochissimi km c’è una torre di controllo con dei militari. Appaiono i primi checkpoint con controllo di documenti, si sente una tensione crescente nell’aria.
La città di Mardin però è una specie di confetto, un dolce architettonico e storico, dove i turisti e il mondo intorno a loro sembrano dimenticare la realtà geografico-sociale in cui sono immersi. Si arrampica su per una montagna tra vicoli, scale e ripide stradine, guardando dall’alto l’immensa pianura che dà sulla Mesopotamia e su cui, a pochi chilometri, sorge la Siria. Di notte lo stacco è evidente: le luci arancioni turche vengono interrotte di netto, dove iniziano quelle bianche sorge il Rojava. Così come una lunga serie di lampioni segna il muro che divide i due paesi.
Le strade di Mardin sono invase da ristorantini, negozietti, hotel e cafè. Edifici di pietra calcarea color miele salgono a terrazza fino all’antica fortezza, in cima alla montagna, dove oggi vi è una base NATO, con soldati americani e turchi. A est, a un centinaio di chilometri, iniziano le zone presidiate dal PKK.
Il volto che Mardin ha oggi si deve principalmente alla dinastia turcomanna degli Artuqidi, che la costruirono tra l’XI e il XV secolo. Le sue origini però sono molto più antiche, presumibilmente dell’età del bronzo. La sua bellezza, che oggi ha però un che di artificioso, di troppo curato, che sa di pappa pronta, non mi attira. Nei giorni in cui mi fermo c’è il mio compleanno, e ho deciso dopo tante settimane di pagarmi un ostello. Voglio fare quello che voglio io, e basta. Così passo il tempo a leggere e lavorare al computer, semi-isolato dal mondo. Molto più interessato a guardare la Siria dal silenzio notturno del tetto dell’ostello, piuttosto che girare tra i turisti, nella confusione e in una superficialità che richiederebbe in questo momento troppe energie per essere superata.
In ostello condivido i pasti con i proprietari, ognuno mette quello che prepara, poi ritorno nella mia cuccia. Mi piace conversare con il grosso gatto che fa da “buttafuori”. Enorme e bello grassoccio, con un fare davvero da padrone con il quale osserva chiunque entra ed esce. Diventa violentissimo appena qualche altro gatto tenta di varcare la soglia. Lo rinomino Piero Pelò, il migliore amico del frigo, che appena apro, che io sia al primo o al secondo piano, non si sa come, lo vede apparire nel giro di pochissimi istanti, pronto a infilarcisi dentro per ispezionare i sacchetti.
In una rarissima escursione tra le vie della città, che nonostante le boutique è davvero molto bella, incontro Ismail, il mio ospite a Şanlıurfa. È con un amico e mi invitano ad andare a bere un çay. Ci sediamo su una meravigliosa terrazza, con vista verso l’infinito sud. L’amico mi racconta di essere un soldato della Jandarma, una delle armi turche. Mi racconta che ogni due anni devono cambiare versante del paese. Due anni a ovest, due anni nel più complicato est. Ma soprattutto mi racconta che ha combattuto per sei mesi in Siria. Con i soldati di Assad, con gli americani, i russi, col PKK. “Brutto, brutto, brutto”. E poi quella parola che ho già sentito tante volte in questo contesto: stress. Nei suoi occhi si legge l’ombra di quello che ha vissuto, che ha visto e che probabilmente ha fatto. Beviamo un çay insieme, mentre la Siria è davanti a noi, cercando di ridere.
Mardin è la mia ultima tappa in questa prima fase di Turchia. In due giorni di pedalata sarò a Zakho, in Iraq. La strada che percorro costeggia ininterrottamente il confine con la Siria. Pianeggiante, avvolta da suolo giallo, e con la fredda continuità di una rete coperta di filo spinato, a fare da ulteriore barriera tra me e il muro del confine. Avamposti militari e inviti a bere çay danno il ritmo alla mia giornata, nella quale mi trovo ad avere talmente tanta teina in corpo che finisco per arrivare molto più lontano di quanto immaginassi. Passo la notte accampato vicino a una stazione di servizio a pochi chilometri da Cizre. Dalla mia tenda osservo il panorama durante il crepuscolo. A pochi passi ho la Siria, vedo le luci della città di Al-Malikiya. Così come poco più lontano vedo quelle di Zakho, ai piedi delle montagne irachene. A est sorgono quelle intorno a Şırnak, in Turchia, dove mi immagino uomini del PKK nascosti dietro qualche dente roccioso.
Confesso che qualche timore di andare in Iraq l’ho avuto, ma nel 2025 confrontarsi con altri viaggiatori e rimanere aggiornati su gruppi WhatsApp di tutto quello che succede in giro per il mondo, è piuttosto facile. La comunità dei cicloviaggiatori poi è fantastica, un grande gruppo di “fratelli e sorelle”, dove consigli e avvertimenti sono quotidiani. C’è sempre qualcuno pronto a dare informazioni su qualsiasi paese. E non c’è niente di meglio della testimonianza di chi sta vivendo un luogo con le tue stesse modalità.
Così arriva il giorno. Al confine supero la lunghissima fila di camion, in quello che è uno dei passaggi di frontiera più trafficati al mondo, e che non mi aspetto essere né veloce né facile. A timbro di uscita ricevuto, vengo richiamato indietro dall’ufficiale: vuole regalarmi una gassosa al limone. Poco più avanti vengo fermato da due poliziotti:”Di dove sei?”. “Italia. Volete il passaporto?”, “Aaaah! No no, vai! E prendi queste!”. Mi regalano due acque e mi lasciano passare. Mi avvio verso il ponte che passa da un paese all’altro e appena attraversato incontro il mio primo peshmerga. Baffi, cappello rosso, mitra. Mi fermo davanti a lui, pronto a dare i documenti. “Di dove sei?”, “Italia”. “E sei venuto fin qua in bici?? Benvenuto in Kurdistan!”. Niente documenti. Avanzo e arrivo finalmente ai controlli, dove tutti mi guardano. Mentre sono in fila mi si avvicinano un sacco di persone per salutarmi e darmi il benvenuto. Qualcuno mi lascia il suo contatto “se hai bisogno di qualsiasi cosa puoi chiamarmi!”. Le procedure sono facili e veloci, così sono pronto a ripartire. Mancano solo i controlli dei bagagli, dove gli ufficiali dopo avermi salutato mi dicono di andare. Non faccio però in tempo a fare due metri che vengo richiamato da un soldato più anziano e più serio. “Vieni qui! Dammi il passaporto”. Rimane un attimo in silenzio e poi, con ritrovata allegria, grida:”Italia! Paolo Maldini!”. Ma non mi lasciano andare. Mi invitano a entrare nell’ufficio, mi regalano acqua su acqua e vogliono che risponda a una chiamata al telefono. È un altro ufficiale che sta in una parte più esterna della dogana, parla italiano e vogliono che lo saluti. Fatta anche questa, decidono che posso andare. Pochi minuti più tardi incontro Billy, con cui avevo parlato al telefono poco prima, che con grande gentilezza mi lascia il suo numero qualora avessi bisogno di qualsiasi cosa o di aiuto in situazioni ufficiali. “Dove andrai? Resta solo in Kurdistan. Giù non è bello, i posti sono brutti, gli arabi sono dei bastardi che odiano i curdi”. Mi mette in guardia. Finalmente esco dalla frontiera e nel giro di poco arrivo in centro. La sera mi ospiterà Khalida, una business woman curda, ma non potrò andare prima delle 19 e mancano tre ore. Così mi siedo ad aspettare, guardando il fiume e la gente che ci vive intorno, nel centro della città. Nel giro di poco iniziano a fermarsi i primi curiosi, a chiedermi chi sono, cosa faccio. Tra questi appare Yussuf, un ragazzo di 19 anni che sembra particolarmente emozionato dalla mia presenza e che si offre di portarmi in giro: “lascia qua la bicicletta, non la toccherà nessuno. Non ti preoccupare”. Non mi fido del tutto e lo convinco a spostarla, almeno fino all’entrata della fortezza, dove ci sono le guardie che possono tenerla d’occhio. Yussuf mi porta in giro per più di due ore, senza alcun verso per fargli capire che ho pedalato tutto il giorno e che sono stanco morto. È infermabile. Mi racconta dei luoghi che ama, di cosa fa, mi porta all’antico ponte ottomano, mi dice come stanno ricostruendo molto velocemente tutta la città, e che presto verranno tantissimi turisti. Mi paga l’entrata alla fortezza, che Saddam Hussein usava come prigione per i curdi, e poi al bazar vecchio, al bazar nuovo, alla chiesa, alla piazza più popolata. Arrivano le 7. Ci salutiamo come ci eravamo incontrati, e vado da Khalida, che però non c’è ancora. Scopro che il posto dove posso dormire è un salone di bellezza, uno dei suoi vari locali, ma devo aspettare che finiscano di lavorare. Nell’attesa mi siedo a mangiare qualcosa nel posto a fianco, dove lavora un gruppo di ragazzi. Prendo una pizza, che mi viene fatta a forma di cuore. E poi tutti intorno a me a fare domande e foto, e poi intorno alla bicicletta. Alla fine, quasi colpevoli, mi dicono che devono farmi pagare perché il locale non è loro, ma se non so dove dormire si offrono di ospitarmi a casa loro. Per fortuna però ho un centro estetico, dove mi lavo a pezzi nel lavacapelli da parrucchiera, e dove ho un grande divano tutto per me. Sono in Iraq.
La prima vera pedalata in Iraq mi porta subito nel deserto. Superata la prima linea di montagne il panorama diventa un’eterna distesa di terra e polvere. Il primo checkpoint militare di una lunga serie si rivela sorprendente: il soldato che mi ferma non mi chiede il passaporto, vuole solo darmi la mano e augurarmi “buon viaggio”. Presto però si alza un forte vento, la bicicletta diventa difficile da tenere quando le folate spingono più forte, ma soprattutto il cielo diventa un turbinio di sabbia. Devo fermarmi per aspettare che si calmi un po’, trovo riparo in una stazione di servizio dove un gatto spia la tormenta facendo uscire la testa da una grata di scolo dell’acqua. Si guarda in giro per un po’, poi torna a rifugiarsi. Della serie “ma chi me lo fa fare?”. Mi rimetto in marcia e finalmente arrivo a Duhok, dove mi attende Kathleen. Di questa donna sento parlare da settimane, è una specie di istituzione di Couchsurfing nel Kurdistan iracheno. 68 anni, canadese, un vissuto sul quale sarebbe facile scrivere un libro. Figlia di un diplomatico è cresciuta tra Afghanistan, Inghilterra, Iran, Ruanda, USA, Canada e Cile ai tempi del colpo di stato di Pinochet. Dal 2015 vive in Kurdistan, dove ha passato anni tra la zona irachena e quella siriana del Rojava, lavorando nella logistica dei campi profughi, per poi dedicarsi alle vittime del genocidio causato dall’ISIS. Oggi Kathleen è una sorta di zia di tanti viaggiatori, ne ha ospitati più di 300, e forse sono ormai incontabili. Così come i gatti che arrivano, che lei cura e vaccina, per poi cercargli una nuova casa. Quando arrivo sono 17.
“Tempesta di polvere, non di sabbia! Ero preoccupata per te, pensavo che non riuscissi a pedalare. Ma fidati, se fosse stata una tempesta di sabbia non ce l’avresti mai fatta. Quelle sono un’altra cosa!”.
In sala c’è Kile, un giovane americano che è lì da una settimana. Era già stato lì anche un mese prima insieme a Faizan, il ragazzo afgano-anglosassone che avevo incontrato a Gaziantep, e a Davide Travelli, un ciclista italiano con cui ero in contatto poche settimane prima. Kathleen mi spiega in fretta le regole: “Non considerare questa casa come un normale Couchsurfing, ma più come un ostello. Entra ed esci quando vuoi. Dormi, cucina, lavora, vai, torna, fermati uno-due mesi, fai quello che vuoi”. Sembra più una previsione che un invito.
A Duhok iniziano a passare i giorni. A casa di Kathleen si sta davvero bene. C’è un bel viavai di persone, è comoda, e avere un luogo dove si può stare liberamente, senza peso né economico né emotivo, è un lusso che capita molto raramente a un viaggiatore. Così capita a me, come a tanti altri di passaggio, di fare davvero fatica a decidere di ripartire. Praticamente tutti si fermano di più di quanto abbiano messo in programma.
Kathleen ha tantissime conoscenze e così decido di chiederle se ha dei contatti per fare volontariato da qualche parte. Non faccio in tempo a chiederglielo che inizia a spedire email a destra e a manca (non ha uno smartphone), e nel giro di poco ho già una prima risposta. Si tratta di un centro che lavora con bambini disabili nel villaggio di Sharia, a una quindicina di chilometri da Duhok. Questo paese è prevalentemente abitato da Yazidi, un popolo originario dell’Iraq, che è stato vittima di un genocidio da parte dell’ISIS tra il 2014 e il 2017. Gli Yazidi che si sono rifugiati nel Kurdistan sono tantissimi, e molti di loro vivono tuttora in dei campi. Sharia è un misto di edifici, case provvisorie e tende e vi risiedono circa dodicimila persone.
L’idea di essere utile a queste persone e di poter conoscere la loro storia e la loro cultura mi riempie di energia, così accetto e nel giro di un paio di giorni posso già iniziare. La prima giornata va molto bene. Il lavoro è semplice: si fanno un po’ di giochi, si cerca di insegnare a leggere e a contare ai bambini, si colora, si canta, e così via. Gli altri operatori sono di una gentilezza quasi commovente, e parlano un buon inglese. Prima di andarmene mi regalano del cibo, dentro un contenitore di plastica: ”Ce lo devi riportare, così siamo sicuri che torni!”.
Lungo il ritorno scende il sole sulle grandi distese di terra e sulla montagna che separa Sharia da Duhok. Un enorme branco di cani randagi, con diciassette componenti, attraversa la strada davanti a me, senza per fortuna curarsi della mia presenza. Pedalo mentre scende il buio, cercando di assaporare il sapore della storia, in un luogo che ha uno dei capitoli più oscuri degli ultimi decenni.
A poche decine di metri da casa, in qualche modo, la catena della bici si incastra dentro la corona. Rimango bloccato in salita, così accosto e a bici ribaltata cerco di liberarla. È evidente che non ho successo, e nel giro di poco si avvicinano un ragazzo, che esce da una casa con degli attrezzi, e una guardia armata: “Non ti preoccupare, ci penso io! Te lo sistemo in un attimo!”. Si arma di martello e cacciavite e inizia la sua operazione, che sembra poter compiere con disinvoltura, se non fosse che a tracolla ha un enorme mitra che a ogni movimento che fa sbatte per terra. Alla fine, ce la fa, senza sparare a nessuno. Sotto i grandi baffi compare un sorriso compiaciuto “Sono qua 24 ore su 24. Se hai bisogno di me mi trovi sempre!”.
A casa di Kathleen intanto è arrivato Ludovico, un giovane archeologo italiano, una piacevole sorpresa. Era da tanto che non parlavo in italiano con qualcuno.
Alla mattina i gatti sono inquieti. Sono separati in gruppi, divisi nelle varie camere della casa, e a parte nel salotto dove stiamo noi ospiti, sono sparsi dappertutto. Urla, miagolii e soffi da litigio si ripetono per il corso della giornata. Il volontariato, dopo nemmeno 24 ore, è già saltato. Le classi saranno interrotte per alcune settimane, non c’è nulla che io possa fare. Così decido che è l’ora di ripartire. Con Kathleen rimaniamo d’accordo che starò in giro per qualche settimana, nel mentre lei sentirà altri contatti per cercare qualcosa di utile da fare. Prima di partire mi riempie di indicazioni e avvertimenti: “I curdi ti inviteranno e ti riempiranno di regali e cose da mangiare. Preparati a parlare anche con delle donne, qua nel nord sono più libere e intraprendenti, e ti verrà chiesto quasi sicuramente di sposare qualche figlia. Ah, nella strada che costeggia le montagne a nord non uscire MAI sul lato sinistro, neanche per pisciare: è pieno di mine inesplose”.
Le prime ore di pedalata scivolano tranquille, senza grandi incontri. Ma non appena entro nella grande vallata più a nord la musica cambia improvvisamente: iniziano le richieste di selfie, le prime acque regalate. Una famiglia intera mi vuole fotografare con il figlioletto più piccolo in braccio (che piange terrorizzato mentre le donne di famiglia si piegano dal ridere). Un’altra famiglia, che si è trasferita in Austria, mi ferma poco più avanti. Un ragazzo mi invita dal proprio negozio per offrirmi una bibita fresca. Iniziano gli equivoci tra l’Italia e la Gran Bretagna, associazione confusa che si ripeterà più e più volte per tutto il periodo iracheno. “Quanto c’hai messo dalla Bretagna? È bella la Bretagna? Si lavora in Bretagna?”. Italia! No Bretagna! La risposta sono sempre sguardi perduti, come se per loro non ci fosse differenza alcuna.
Lungo una salita mi si affianca una jeep, che si ferma poco più avanti. Dal cassone scende un gruppo di ragazzi, misto tra curdi e americani, che avevo conosciuto pochi giorni prima. Sono una squadra di ultimate frisbee. Al volante la madre di una di loro, che al nostro primo incontro mi aveva raccontato una parte della loro storia. Statunitensi, con origini giapponesi, si erano trasferiti in Malesia, ma sono stati cacciati perché parlavano di Gesù. Una volta vietatogli l’ingresso nel paese del sud-est asiatico si sono trasferiti in Turchia, nella città di Diyarbakır. Ma anche lì l’esperienza è durata poco: hanno cominciato a studiare curdo e il marito è stato ripreso da qualcuno mentre per strada parlava la lingua “ribelle”. Il video è diventato virale, tanto che per strada lo riconoscevano praticamente tutti. Uno straniero che parla curdo non è qualcosa di ben visto dal governo turco, soprattutto se costui non parla turco: perché il curdo sì e il turco no? Cosa nascondi? Quali sono le tue intenzioni? Se già la lingua curda è fortemente discriminata e in tante zone del Kurdistan turco quasi non si parla più, il fatto che la parli uno straniero è come minimo sospetto. Risultato: famiglia espulsa dalla Turchia. E così l’arrivo in Iraq, dove nella zona del Kurdistan gli statunitensi sono ricevuti con grande affetto e riconoscimento. Non importa che gli interessi più profondi degli USA fossero per le grandi quantità di petrolio presenti nella zona, quello che conta è che abbiano aiutato il popolo curdo a liberarsi dall’oppressione araba e abbiano fermato lo sterminio che era in atto. Agli occhi dei curdi sono di fatto dei salvatori.
Poco più avanti vengo fermato di nuovo, questa volta da una famiglia che sta facendo un picnic tra degli alberi al lato della strada. Ozcan ha vissuto in Italia per tre anni e per una volta è bello sentire qualcuno che viene da lontano che è stato ben ricevuto: “il popolo italiano è fantastico! Lo amo. Gente stupenda!”. I figlioletti parlano inglese, la moglie non porta il velo mentre la madre sì, il padre è il primo uomo anziano dopo tante settimane a non essere estremamente serio. Ride e scherza di continuo. Penso a Ludovico e a quando mi ha detto che l’atmosfera in Iraq è molto più leggera che in Turchia. Ed effettivamente è evidente quanto i curdi si sentano più liberi e siano orgogliosi di aprire le braccia e urlare la propria cultura, qui, in quella che è di fatto l’unica zona curda riconosciuta. I curdi sono divisi in quattro paesi: Turchia, Iran, Siria e Iraq. In quest’ultimo, ormai dagli anni novanta, hanno una regione autonoma, che però è costata sangue e sofferenza, e che ancora oggi è in equilibrio precario.
Vengo riempito di dolci e frutta da portare via. Per strada, al mio passaggio, sbocciano innumerevoli i sorrisi. Dalle macchine sbucano a decine bambini e bambine con mezzo busto fuori dai finestrini, oppure dal tettuccio aperto, a mo’ di vedette. Appaiono donne coi capelli sciolti e i tacchi alti.
Nei pressi di Amedi, la mia prima destinazione, Kathleen mi ha consigliato delle rovine incastrate nel fondo della valletta, dove poter montare la tenda e dormire. Mentre scendo la ripidissima stradina per raggiungerle, vengo però fermato da un signore, che mi invita a bere un’aranciata. È un professore di letteratura e conosce bene gli scavi perché ha contribuito a ripulirli. Scendiamo insieme. È un’ex scuola, da quel che mi dice di origine francese, ma rimangono diversi dubbi a proposito. Amedi è un villaggio molto antico, in cui si sono insediati nel tempo molti popoli diversi: tra i vari hanno scritto pagine della sua storia assiri, persiani, arabi, curdi, ebrei e ottomani. Costruita sulla cima di una formazione montuosa a forma conica, vigila la vallata dall’alto dei suoi 1400 m, protetta da un’antica cinta muraria.
Il professore non vuole che io dorma tra le rovine, così dopo aver inviato dei bambini per aiutarmi a spingere la bicicletta su per la salita, mi aiuta a cercare un posto dove dormire. Nel giro di poco vengo accolto da un negoziante, che mi lascia dormire sul pavimento all’interno del suo locale. Nemmeno a dirlo, appena arrivato mi ha offerto un vassoio di frutta, poco più tardi mi ha portato la cena, e la mattina seguente la colazione e del cibo da portare via.
Da Amedi continuo a dirigermi verso est, ora percorrendo la vallata che sul lato nord mette in mostra cartelli che invitano a non camminare nei campi: zone minate. Poco dietro le montagne la Turchia, e alcune delle zone con maggiore presenza del PKK.
Poco dopo essere partito vengo fermato a uno dei tanti checkpoint dei Peshmerga, dove mi fanno accostare e vengo invitato a entrare nella piccola caserma. Dopo un controllo di documenti mi viene offerto un tè, e da lì a poco cercano di offrirmi anche il pranzo, tra battute e risate. I Peshmerga, parola che significa ‘coloro che affrontano la morte’, sono oggi le forze armate ufficiali della Regione del Kurdistan iracheno. Tuttavia, sono nati come movimento di guerriglia partigiana, impegnato nella resistenza curda contro i governi centrali iracheni per ottenere autonomia e diritti nazionali.
Verso l’ora di pranzo vengo fermato a un altro checkpoint, e questa volta, dopo il controllo documenti, non posso rifiutare l’invito a pranzo. Mentre mangio la zuppa di fagioli e patate osservo questi uomini, i loro occhi, le loro mani. Mi chiedo cos’abbiano visto, cos’abbiano registrato. In che situazioni quelle mani hanno compiuto gesti che hanno salvato, o al contrario, tolto delle vite. Con quale di loro andrei in battaglia e mi sentirei più al sicuro? La strada è piuttosto faticosa e avanzo lentamente. I paesaggi sono magnifici e ogni villaggio è praticamente una festa. Ogni volta che ne attaverso uno vengo salutato, invitato a fermarmi, accolto. In uno di questi vengo inseguito da uno sciame di ragazzini, uno mi accompagna in motorino, un altro cavalca al mio fianco per diverse centinaia di metri, altri si attaccano alla bicicletta nel tentativo di trattenermi per un po’. Passo la notte tra gli ululati misteriosi di quell’animale che ancora non riconosco, l’eco delle grida delle anime tormentate.
Il giorno successivo ricomincia com’era finito: macchine che accostano per regalarmi acqua e bibite fresche o per scattare una foto e fare un video. Persone che mi invitano a casa a mangiare e a dormire. Peshmerga che mi fermano per fare due chiacchiere e farsi raccontare qualche storia del viaggio. L’apoteosi però arriva nel villaggio di Sreshma, dove arrivo poco prima del tramonto: all’ingresso vengo accolto da quattro bambini che mi salutano timidamente. Una macchina mi affianca, ma alla guida, invece di un uomo, c’è un ragazzino di 12-13 anni. I bambini iniziano ad aumentare, urlano eccitati, un’altra macchina mi affianca: questa volta l’autista non ne avrà più di 10-11, e carica altri due bambini più piccoli. Nel giro di poche decine di metri mi trovo avvolto da bambini, ragazzi e qualche adulto, e vengo invitato a fermarmi in un minimarket. Mi fanno entrare. “Prendi quello che vuoi!”. Non posso rifiutare, non è una scelta. Patatine, cioccolata, bibite. Mi siedo a bordo strada e sono completamente circondato: arrivo a contare quaranta persone, mentre continuano ad arrivarne. Una bolgia di domande mi sommerge, esaltazione generale. Dopo una ventina di minuti riesco a ripartire, il sole sta per tramontare e nessuno è riuscito a dirmi dove posso dormire. Non riesco a fare però più di trecento metri che sono già circondato da altre persone. Gente sui tetti, sui balconi, dalle scalinate, dai negozi: tutti che mi guardano, tutti che vogliono sapere da dove vengo, cosa faccio, perché. Foto, video, abbracci: un delirio. “È arrivato Gesù Cristo” penso tra me e me, completamente sconvolto da un tale ricevimento. Finalmente arriva qualcuno che parla inglese. Fino a quel momento era stato complicatissimo conversare, anche perché il traduttore del telefono da italiano/inglese a curdo è più un danno che un aiuto. Riesce a inventarsi delle storie incredibili, che chi le legge pensa che stai completamente fuori di testa. Il ragazzo che parla inglese mi informa che in paese stanno costruendo il primo parco, e che posso montare la tenda lì. Ormai è buio ed è l’unica soluzione che ho. Tra saluti e il solito tripudio di foto e video attraverso l’ultima parte di paese e raggiungo lo spiazzo. Un’ora per fare due chilometri. Ho i crampi alla mascella per quanto ho sorriso. Il parco è ancora una distesa di terra con dei lampioni, appena al lato della strada principale. Mi vede tutto il paese, ma non ho altra scelta. Monto la tenda. Saluto qualche passante finché un ragazzino mi si avvicina: “Ciao! Ti ho visto su Snapchat e ho visto che eri qua al parco. La mia famiglia ti vuole invitare a cena, abitiamo qua vicino”. Accetto.
Ci sediamo sui tappeti intorno al cibo, ci sono altri due fratelli, una sorella, e la madre, piuttosto anziana e vestita tutta di nero. Le mie porzioni sono più grandi di tutte quelle degli altri messe insieme, così cerco in tutti i modi di farli mangiare anche da lì, con scarsi risultati. L’ospite deve essere onorato al massimo. Da una grande televisione guardiamo video di Bologna su YouTube, vogliono vedere da dove vengo. Poi mi mostrano i luoghi che più amano della loro terra e Hawler (o Erbil in arabo), la loro capitale.
Torno alla mia tenda, sono esausto. Faccio stretching e vado a letto, sperando che Dio voglia lasciarmi dormire. Ma Dio non vuole. Ha inizio la processione. Prima un gruppo di ragazzi “Ehi Mister! Hello!”. Esco dalla tenda, “chiacchiero” (col traduttore) per una decina di minuti e poi li saluto dandogli la buonanotte. Sui social sto dilagando, sanno tutti che sono lì. Così un attimo dopo appaiono altre voci, e poi altre ancora e ancora e ancora. Per quasi due ore continua ininterrottamente ad arrivare gente per salutarmi, per vedermi. Già da un po’, però, ho chiuso i battenti, fingo di stare dormendo e rimango rintanato dentro. È tutto meraviglioso, ma non ne posso più. Poi, quando ho ormai lasciato andare la speranza per non soffrire troppo l’attesa, finalmente, il silenzio. Che dura un paio d’ore, finché un grosso cane decide di passare la notte ad abbaiare proprio di fianco alla mia tenda: il suo latrare rimbomba per tutta la valle, con un coro di cani che risponde. Non chiudo occhio.
Benvenuto sotto la valanga dell’amore curdo. Come comincerà il domani?
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Le Immagini
1 – Monte Nemrut, Turchia
2 – Diyarbakır, Turchia
3 – Diyarbakır, Turchia
4 – Gaziantep, Turchia
5 – Monte Nemrut, Turchia
6 – Monte Nemrut, Turchia
7 – Şanlıurfa, Turchia
8 – Duhok, Iraq
9 – Monte Nemrut, Turchia
10 – Rumkale (Fiume Eufrate), Turchia
11 – Şanlıurfa, Turchia
12 – Sreshma, Iraq
13 – Birecik, Turchia
14 – Monte Nemrut, Turchia
15 – Duhok, Iraq
16 – Fiume Eufrate, Turchia
17 – Şanlıurfa, Turchia
18 – Duhok, Iraq
19 – Keçikuyusu, Turchia
20 – Şanlıurfa, Turchia
21 – Cedere, Turchia
22 – Monte Nemrut, Turchia
23 – Eski Kahta, Turchia
24 – Mardin, Turchia
25 – Şanlıurfa, Turchia
26 – Diyarbakır, Turchia
27 – Şanlıurfa, Turchia
28 – Duhok, Iraq
29 – Şanlıurfa, Turchia
30 – Duhok, Iraq
31 – Duhok, Iraq


































