Il Viaggio Personale

Mese 3 – Mustafa Karademir Golmar Hayrat

L’ostetrica sa che senza dolore non si apre la strada al bambino e la madre non può partorire. Allo stesso modo, affinché possa nascere un nuovo sé, sono necessarie difficoltà. Proprio come l’argilla ha bisogno di sopportare un calore intenso per diventare forte, l’Amore può essere perfezionato solo nel dolore.”

Uno sciame, una nuvola che prende forma e si dissolve in continuazione. Come particelle di vapore sono dappertutto, presenti in maniera fitta ma quasi invisibili. Nel frattempo, una tortura. Centinaia di zanzare rendono il primo tramonto in Grecia, quindici anni dopo l’ultima volta, un inferno. Poco prima, appena arrivato a Petrota, ero stato assalito da coccinelle rosse e nere. Decisamente più dolci. Se ne sono andate con il sole, lasciando nell’aria il ricordo della fortuna e sostituendolo con quello molto più lucido della caccia al sangue.
Mi era mancata la Grecia, col suo odore estivo di erba secca e finocchietto selvatico, col suo silenzio. Questo paese sembra silenzioso anche quando c’è rumore, anche quando c’è musica.
Sono a due passi dall’Asia. Da Alessandropoli in un giorno di pedali si entra in Turchia, con altri due si attraversa lo stretto dei Dardanelli e si cambia continente.
Prima di salutare l’Europa, però, vorrei fare un salto su un’isola greca. Non importa quale. Le sue isole mi ricordano l’infanzia e l’adolescenza, le prime vacanze senza genitori, quando organizzavo io per tutti. L’inizio, forse, di tutto questo. Una qualsiasi andrebbe bene, la più comoda lungo la strada.
Decido quindi di andare a Samothraki, per riposare e prendere il fiato due tre giorni prima di tuffarmi nell’est.
Di questa isola so poco e niente, ma pare essere fuori dai classici giri turistici. È un luogo molto mistico, sede del santuario dei Grandi Dei, luogo di ritrovamento della Nike. Si dice che Poseidone abbia osservato la guerra di Troia dalla cima della sua montagna più alta, il monte Fengari (1611m), prima di prendersi gioco di Ulisse. Nella parte nord, vicino al villaggio di Therma, c’è una zona di camping gratuita. Selvaggia, senza elettricità, ma con acqua e bagni. Se due più due fa quattro, qui c’è gente a me affine. E dopo due mesi di viaggio ho un grande bisogno di socialità.
La sola idea mi eccita e mi scombussola allo stesso tempo. Tende, gente giovane, qualche bar con un po’ di musica.
Nell’eccitazione la prima cosa che trovo è l’ansia: sembra assurdo, ma è così. Ansia da prestazione sociale. Non paura di parlare o conoscere persone. Penso che potrei fare amicizia anche con un sasso. Piuttosto, fretta di voler incontrare, condividere, essere parte.
Mi renderò conto nei giorni che la combo tende, natura, gente giovane in quantità, mi ha fatto pensare molto a un festival, dove si hanno 3-4-5 giorni per fare tutto. Bisogna fare in fretta. Qua invece il tempo è infinitamente più esteso. È lento, si sveglia tardi, dorme a orari sconnessi. Si dimentica di avere un ritmo.
Posso fare con calma. Anzi, è l’unica via che esiste.
Così mi metto seduto a osservare. Prima in un bar. Ragazze che giocano a carte, ragazzi che bevono vino e ouzo, musica brasiliana. Chi mi colpisce di più però è una signora anziana col viso bruciato dal sole e un fazzoletto nero in testa, dal quale esce una lunga treccia di capelli grigi. Indossa una camicia scura, coperta da un gilet verde. Una lunga gonna blu scende fino a coprire parte dei grossi anfibi neri. “Strane calzature per questo luogo”, penso. Fuma e beve un caffè col ghiaccio. Ha gli occhi accesi che si muovono con una strana inquietudine, anche se poi si alza e se ne va cantando, col viso serio.
Dopo un po’ cambio luogo di osservazione. In spiaggia lascio scendere il sole mentre ascolto un po’ di musica. Alla mia sinistra un gruppo di ragazze si prepara, si fanno belle con il trucco. Alla mia destra dei ragazzi, dello stesso gruppo ma che rimangono un po’ distanti, si fanno belli anche loro, ma con l’atteggiamento.
A me si unisce Gerusalem, una ragazza molto giovane di Salonicco. Scambiamo solo qualche parola, restando più che altro ad ascoltare. Come una grossa pietra che spacca il fruscio del mare, arriva poi Shakira. Londinese figlia di bengalesi, che parla svariate lingue e non sta ferma più di due secondi. Si aggira nuda tutto il giorno, puoi vederla comparire in ogni momento, così come sapere che c’è gente che la cerca da due giorni senza incrociarla mai.
Oksana invece viene da Kiev. È da due mesi con la tenda in una zona del bosco. L’inverno lo passa in una capanna in Georgia, d’estate viaggia con la sua gatta nera, Baghera.
Il mondo si muove.
La notte diventa melodie.
Il grande massiccio montuoso ci guarda deserto. A picco sotto il sole, strapiomba su di noi. Si apre nelle forme del tempo, attraverso le lacrime che lascia scorrere, che hanno formato le sue rughe e i suoi canyon. La ricerca del silenzio spinge molti a risalire questi sentieri d’acqua, offrendo a ciascuno la solitudine che cerca: più a monte, per chi desidera isolamento completo; più a valle, per chi preferisce una quiete meno solitaria. Io sto andando già abbastanza lontano in generale, opto quindi per non spingermi troppo in là. La bellezza, in ogni caso, è ovunque, con le sue piscine, le cascate, i platani vecchissimi e maestosi. In quest’isola c’è una grande pace, ma anche qualcosa che accende una certa inquietudine.
Lo scorrere dell’acqua porta velocemente i pensieri in movimento. Silenzia il mondo intorno e scatena quello interno.
Nei giorni prima di sbarcare mi sentivo in grande equilibrio. Sull’isola, invece, tutto è di nuovo in discussione, come se ballasse sulle onde del mare. Tra i vari elementi, i continui innamoramenti sembrano essere una delle cause principali della pace perduta. Mentre mi domando come sia possibile, rifletto sulla vera natura di questo fenomeno. Va bene l’attrazione ormonale ed estetica, ma cos’è realmente il desiderio?
Quanto conta in questo meccanismo il famoso ego? Quanto siamo mossi dal bisogno di riconoscimento esteriore, o di auto-riconoscimento? Certo, c’è la spinta ormonale, c’è il bisogno di affetto (ma cos’è poi l’affetto?), ma quanto pesa la necessità di “riuscire”, di conquistare, e quindi di sapere di piacere, di sentirci riconosciuti? È forse da qui che traiamo la misura del nostro valore?
Accanto a me, il ruscello continua a scorrere, e i miei pensieri lo seguono come foglie trasportate dalla corrente verso un salto.
Mi chiedo, più in generale: in tutto ciò che facciamo, dove finisce la genuina ricerca di conoscenza e dove inizia la preoccupazione per l’immagine, per il giudizio altrui, per come appariamo al mondo?
Quante volte seguiamo linee guida, non sgarriamo, ci comportiamo “bene” solo per non apparire sbagliati agli occhi degli altri? Quante volte perseguiamo una carriera o una strada per paura del giudizio, per non rovinare la nostra immagine?
Al contrario, quante volte vogliamo rompere tutto, trasgredire ogni regola, gridare “vaffanculo” per il semplice bisogno di evadere, per dire che non stiamo bene, che siamo diversi, che vogliamo ribellarci al giudizio altrui? Per affermare che vogliamo scrivere noi la nostra strada, ma che in realtà abbiamo paura di farlo?
E quindi, alla fine, qual è il confine tra l’essere autentici e l’essere per qualcosa? Come capire il perché, il se e il come delle nostre azioni?
La risposta, credo, si trova sempre nello stesso posto: nel cuore. Solo che per coglierla serve molto lavoro. Senza quella forza primaria, quella autentica e interiore, non si può andare veramente lontano.
Di certo la spinta dello sguardo esterno, del giudizio sociale, è potente. Ma la sua energia è meschina. È come la differenza tra l’energia che viene dal riposo e dal nutrimento, e quella che si ottiene dal caffè e dalla Red Bull: qual è la meta vera?
Questo mi porta a pensare all’altruismo, dai piccoli gesti alla beneficenza e al volontariato. Fino a che punto è amore, e da quando diventa bisogno di riconoscimento? E si possono davvero separare queste due dimensioni? Forse sì, ma serve una grande onestà, prima di tutto verso se stessi. Un lavoro che forse, nella vita, non avrà mai veramente fine.
Il risveglio con tuffo nudo nel mare diventa un rituale, così come il tramonto affiancato dalla musica, seduto sui sassi della spiaggia. Inizio sempre da solo, non lo rimango mai. Shakira passa spesso come un soffio di vento. Lascia dolci e noccioline, apre tre quattro discorsi, scompare a cercare persone per fare acroyoga.
Gerusalem ormai è una piccola costante di questo momento. Scambiamo sempre poche parole, ma che ci bastano per capirci. Ha il cuore ferito, tanto buio. Piange mentre i Kokoroko salutano il sole con la loro splendida Abusey Junction, Jorge Ben Jor canta “Apri la porta e la finestra, e vedrai nascere il sole”.
Con Oksana ci spingiamo su per le valli. Dimostro quanto non sono bravo ad arrampicarmi, ma in qualche modo ce la faccio sempre. Ha 51 anni e un figlio di 28 che è scappato dall’Ucraina. Non è uscito di casa per tre mesi, per paura di essere reclutato e mandato a uccidere. È riuscito a scappare all’estero grazie all’aiuto di alcuni trafficanti, rimanendo una giornata chiuso in un container.
Tornando al villaggio ci arrampichiamo su per un albero di gelsi. Con i corpi nudi ci attacchiamo ai rami, ridendo, cercando di rubare la dolcezza dei frutti più lontani. Siamo macchiati di rosso dalla testa ai piedi, mi sento un bambino.
I giorni scorrono nell’arte del non fare nulla. Ore seduto da Falekas, il bar, dove il padre della famiglia che lo gestisce ormai sa cosa bevo: “frappé con latte e poco zucchero?” Esatto. Si gioca a carte, si legge, si scrive, si incontrano persone. Si caricano i telefoni. Che sensazione strana condividere tutto con decine e decine di persone che vivono sparse tra boschi e spiaggia, senza corrente elettrica, e con punto di ritrovo le due stradine del villaggio e la sua platia. Del resto solo natura, fuochi, sentieri, cicale.
Nascono piccole famiglie, che ogni giorno guadagnano un parente e ne perdono un altro. Giorgio, Malina e Tim, con cui perdo giornate senza nemmeno uscire mai dal triangolo tenda-mare-ombra. Si aggiungono Chris dalla Polonia, Yonko dalla Bulgaria, Sky dal Belgio e poi Dafna da Israele, Dimitra dalla Grecia, Rocco da Torino, e poi e poi e poi. Ogni giorno inizia uguale, col bagno al mare, il sole sui sassi della spiaggia, un risveglio che può durare 2-3 ore.
Ogni giorno penso “parto dopo-domani”. E ogni dopo-domani non è mai quello giusto.
Dentro di me c’è l’inquietudine del voler andare avanti. Quotidianamente però battibecca con una voce nuova, che dice “impara a stare fermo”. In un posto dove stai bene, tra l’altro.
Ci sono giornate in cui ci infiliamo nel silenzio, in cui ci nascondiamo dal sole e ci avventuriamo nell’ombra. Alcuni sentieri sono troppo complicati, talvolta pericolosi, ma qualcuno prova a risalirli. Accucciati in un angolo sopra una scarpata si prova a lasciar crescere le proprie radici. Sembrano un gatto che è appena arrivato in un luogo nuovo: guarda fuori dalla porta di casa con diffidenza. Annusa. Si muove pochi passi alla volta per assicurarsi che non ci siano sorprese. Da qualche parte riusciamo ad aggrapparci, e allora possiamo leccare le nostre ferite. Raramente si incrociano gli occhi di qualcun altro, come se il buio non ce li lasciasse vedere.
Tra le cascate di Paradisos noto Gerusalem rannicchiata su se stessa, si specchia in una piscinetta. Non credo guardi il suo volto. Probabilmente cerca più giù, dove l’acqua è più profonda, cercando la via per trasformarsi in una delle libellule che hanno lo stesso colore del fiume.
Con grande difficoltà, ma anche voglia di rimettermi in marcia, riesco a lasciare l’isola dopo dodici lune. Sembra passato molto di più, ma anche molto di meno. Per fortuna anche Chris prende la stessa barca, e tante facce conosciute condividono lo stesso sguardo nostalgico dell’addio. La compagnia, vedere anche altri che se ne vanno, fa sentire meglio.
Sul delta del fiume Evros, nella mia ultima notte greca, riprendo da dove avevo lasciato sulla terraferma. Lavarmi i denti mi costa quasi un lasciapassare per prendere parte al “Nido del cuculo”. Conto più di 100 punture in poco più di 15 minuti. Ringrazio l’esistenza della tenda. Quando mi chiudo dentro, nuvole nere di tempesta si attaccano alla zanzariera, affamate. Samothraki è ancora davanti a me, separata ora dal mare e dagli insetti.
Quando mi sveglio il mattino dopo, le piccole bestie hanno lasciato il posto a dei fenicotteri rosa. Samothraki è ancora lì, per un attimo penso di tornare indietro, ma no: è ora di varcare le mie colonne d’Ercole.
Il lungo ponte che attraversa il fiume Evros, nel passaggio di frontiera di Kipi, porta dalla Grecia alla Turchia. Per metà è bianco e azzurro, l’altra è rossa. Militari armati fino ai denti attendono dentro a delle torrette che sorgono ogni poche decine di metri. Le tensioni tra i due paesi sono sempre vibranti. Ma è soprattutto la zona di confine più calda d’Europa per quanto riguarda il passaggio di migranti. La maggior parte di loro si lancia dentro l’UE passando in Grecia attraverso le acque che separano per pochi km la costa turca dalle tante isole dentro Schengen. Ma anche queste zone sono spesso luoghi “caldi” per i tentativi di ingresso. Dal 1° gennaio del 2025 anche la Bulgaria è entrata a far parte dell’UE, diventando così un altro importante accesso al vecchio continente, condividendo con la Grecia l’essere il primo step per tante persone nel territorio dell’Unione Europea.
La Turchia ospita circa 4 milioni di rifugiati, e dal 2016 ha stretto degli accordi con l’UE per trattenerne il più possibile sul proprio territorio.
I tentativi di accesso al continente occidentale rimangono però moltissimi. Nel 2024, nel solo attraversamento di confine di Kipi, sono stati denunciati dall’ONU più di 4000 respingimenti illegali, e sono stati più di 50000 gli arrivi via mare.
Il forte aumento di sbarchi, che è cresciuto soprattutto nella via che dalla Libia porta all’isola greca di Creta, ha portato il governo ellenico, nel luglio 2025, a chiudersi ulteriormente. Le richieste d’asilo per coloro che arrivano via mare saranno sospese per tre mesi, con detenzioni fino a due anni e rimpatri forzati nei paesi di provenienza o di transito. Le condizioni di vita di queste persone rimangono sotto il limite della decenza, i loro diritti umani continuano a essere spesso dimenticati e ignorati.
I primi giorni di pedalate turche sono torridi e noiosi. Le temperature stanno sui 36-37°, l’unica strada esistente è una sorta di autostrada che regala come possibili soste solo dei benzinai. Un paio di incendi rendono l’aria densa e ancora più pesante. Giungo a Kilitbahir, un piccolo villaggio sulla penisola di Gallipoli da cui prenderò un traghetto che in 2km mi porterà a Çanakkale. Dall’altro lato dello stretto dei Dardanelli, in Asia.
Nella mattina del 15 luglio sono ufficialmente nel nuovo continente. Prima di lasciare Çanakkale cerco una fontana per riempire le scorte d’acqua. Dopo un tentativo non andato a buon fine, fontanella secca, vedo un minimarket e vengo ammaliato dall’idea di prendere un’acqua fresca e un iced tea. Non faccio in tempo a “parcheggiare” la bici che mi si avvicina un signore con una bottiglietta d’acqua gelata. Lo ringrazio. Ne bevo un sorso e sistemo il resto nel thermos, per conservarla per momenti più torridi. Non ho ancora finito il travaso che un altro signore mi si avvicina con un thé freddo al mango. Mi avete letto nel pensiero?
La giornata viene resa possibile solo da un vento fortissimo, che mi permette di sopravvivere sull’asfalto mentre il sole batte a 37-38 gradi. Il vento a volte mi spinge da dietro, a volte di lato facendomi rischiare di cadere, a volte è contrario e rende faticosissimo avanzare. Ma è, in ogni istante, benvenuto ed essenziale.
A fine giornata, stremato, mi fermo in un piccolo campeggio. È la prima volta che pago per dormire dalla Macedonia del Nord, era il 18 giugno.
Mi trovo a circa 200km a nord di İzmir, in un campeggio sul mare. Il rumore delle onde, una grande pace, i lettini, l’ombra, le olive turche. Davanti a me splende ancora la Grecia, con l’isola di Lesbo visibile a pochi km. Proprio lì, dall’altro lato di quel mare azzurro, sorgeva Moria, il campo profughi più grande d’Europa. Il 9 settembre del 2020 un enorme incendio lo ha raso al suolo, costringendo a evacuare più di tredicimila persone.
Oggi è in costruzione un nuovo campo, quello di Vastria. Sorgerà a circa 30km dalla città di Mitilene, in una zona isolata e con alto rischio di incendi. È progettato per ospitare cinquemila persone. Moria lo era per poco più di tremila, è arrivato a ospitarne venti.
Lungo la strada per İzmir comincio a conoscere l’ospitalità turca. Mi viene offerto il primo chai in uno dei tanti benzinai in cui mi fermo a rinfrescarmi e vengo caldamente ricevuto nel piccolo villaggio di Aşağikiriklar, dove arrivo la sera. Tra grandi distese di soia ed enormi pale eoliche, strade polverose di ghiaia bianca mi hanno portato qui. Mi viene consigliato di montare la tenda vicino alla scuola, così tiro su il rifugio nel giardinetto sul retro, tra gli ulivi. Sono ormai pronto a dormire quando comincio a ricevere visite. “Hai mangiato?”, è il mantra che sento ripetere, quando prima dei signori, poi dei ragazzini passano a salutarmi curiosi. Dopo vari inviti cedo e mi unisco a degli adolescenti nel parchetto. Lavorano tutti nei campi di soia. Il più giovane, 12 anni, una sorta di Valentino Rossi del paese, continua a fumare sigarette a ripetizione. Viene un po’ bullizzato con battute omofobe, ma è il prezzo per stare coi più grandi. Mi offrono pepsi cola e semi di girasole, poi mi regalano due bottiglie d’acqua e tre pacchetti di biscotti. Rifiuto più volte la cena, con difficoltà.
Si parla di calcio, di lavoro, di ragazze.. la vita da straniero con Google translate è decisamente più facile.
Il giorno dopo sono atteso a İzmir. Ho trovato ospitalità su Warmshowers, e sono invitato a una grigliata. Pedalo come un fulmine tra raffinerie di petrolio e immense fabbriche, per km e km nella zona industriale più grande che abbia mai visto. 60 km di tubi, camion, cisterne e cavi elettrici, da Aliaga fino a İzmir. Avvolto spesso da un gran polverone e ormai brasato dal sole, arrivo finalmente nella casa di quelli che scoprirò essere due splendidi amici.
L’idea iniziale è quella di fermarmi solo una notte, giusto per riposare in un letto dopo tante settimane (l’ultimo è stato in Bulgaria). Il piano barbecue però mi fa già estendere a una notte in più. E così cominciamo, tra chiacchiere sulla fotografia, su Terzani, sui reporter del passato. Guardiamo documentari e giochiamo a giochi da tavola, suoniamo musica, cuciniamo. “Se vuoi restare anche domani noi siamo felici”. Accetto. Una volta, poi un’altra, fino al quarto giorno.
Durante la giornata ognuno lavora alle proprie cose, la sera, quando fa più fresco, andiamo a fare passeggiate sul lungomare. Ci uniamo alle migliaia e migliaia di persone che con le proprie sedie e tavoli portati da casa occupano la lunghissima costa di questa immensa città. Decine di chilometri di pic-nic serali, dove quotidianamente vengono consumati quintali di semi di girasole.
Ugur e Ilknur mi riempiono di cibo a non finire. Ci fermiamo a provare tutto quello che gli passa per la mente. Dolce, salato, frutta, bevande. Impossibile fermarli. Io consumo come una locomotiva, posso inghiottire una tavolata senza troppe preoccupazioni.
Per quattro giorni ci godiamo con molta semplicità lo stare insieme, il tempo tra persone che si capiscono e che condividono interessi e preoccupazioni sulla vita.
Lasciarli diventa davvero difficile, ma allo stesso tempo molto bello. È il pensiero che anche nella casualità della strada si possano trovare persone così affini e stringere in così poco tempo rapporti così belli, un grande tesoro. Un concetto che dà grande forza in una vita randagia di questo genere.
Continuo quindi la mia veloce discesa verso sud. Dopo le settimane fermo a Samothraki mi sono messo in testa che per un po’ dovrò spingere. Devo recuperare un po’ di terreno, e in ogni caso sulla costa ovest della Turchia non ci sono grandi cose che mi chiamano. Una di queste sarebbe Efeso, un’antica città greca le cui rovine sono tra le meglio conservate e più spettacolari al mondo. L’entrata per gli stranieri però costa 40€, veramente tanto per le mie tasche. Così da quelle parti mi ci fermo solo per montare la tenda e dormire. La spiaggia su cui mi fermo è l’ennesimo immenso picnic marittimo. Decine di tende montate sulla sabbia e sulla terra poco dietro. Una sorta di vero e proprio villaggio. Con il solito grosso difetto turco: tutti buttano qualsiasi cosa per terra, rendendo luoghi magnifici immense pattumiere. Uno schifo.
Ho finito completamente l’acqua, errore insolito, così appena riparto la mattina cerco subito un benzinaio dove rifornirmi. Mi ritrovo nei bagni della Shell, a riempire le borracce di acqua semi salata da rubinetti che ne fanno uscire un filo alla volta. Soliti rituali di sciacquo e rinfresco, per decenza igienica e soprattutto per non perdere conoscenza causa sole. Rimango parecchi minuti nel bagno pubblico. A un certo punto un signore sulla sessantina vestito di bianco entra e si ferma appoggiandosi al muro. Non si lava le mani, non va in bagno. Sta lì, e si guarda in giro. Poco dopo ne entra un altro. Avrà circa 50 anni e una maglietta rossa. Si sciacqua le mani e si ferma a un paio di metri da me, fissandomi. Iniziano a passare i secondi, che sembrano andare man mano sempre più piano. Dopo un po’ guardo nel riflesso dello specchio, incrociando lo sguardo dell’ultimo entrato. L’acqua sembra uscire dal rubinetto sempre più piano. Passano altri eterni secondi, sento il peso degli occhi di questi uomini. Decido di guardare maglia rossa, questa volta direttamente, gli sorrido. Mi saluta e continua a guardarmi. Dopo un po’ scambia due parole con quello con la maglia bianca. Saranno ormai passati cinque minuti da quando sono lì, finalmente ho le borracce piene e me ne posso andare. Uscendo continuo a guardarmi dietro per vedere se sono ancora lì che mi guardano. Per fortuna non li rincontro più, ma il loro sguardo rimane con me per diverse ore.
La giornata è calda a livelli non credibili. Le salite, benché relativamente brevi, sono a tutti gli effetti una “grigliata su pietra” umana. Sudo litri d’acqua, il manubrio è incandescente. A ogni distributore mi devo fermare per bagnarmi il più possibile e abbassare la temperatura corporea. Devo anche continuamente cambiare l’acqua dalle borracce, poiché nel giro di pochi minuti diventa talmente calda da non essere buona neanche per rovesciarsela addosso: scotta! Le discese, che solitamente col caldo sono un piccolo momento di rinascita, dove si muove un po’ d’aria, diventano invece una sofferenza. Il venticello è talmente caldo che mi brucia la pelle. Un uomo gentile, lungo una salita mi regala dell’Ayran (yogurt salato fresco, da bere) e del pane con olive e pomodori secchi. Vari benzinai mi offrono un chai. Ma sono solo piccoli abbracci in un cammino d’inferno. Arrivo a fine giornata, finalmente, sul lago di Bafa. Dopo quasi 700km di Turchia, sono in un luogo che voglio visitare. Nel nord est di questo grande lago salato, giungo alla fine della strada, nel piccolo paese de Kapıkırı. E rimango a bocca aperta.
Sono in un luogo di una bellezza sconvolgente. Grandi montagne di granito scendono a forma di grosse pietre rotonde e rossastre fino alle acque del lago, dove il sale disegna linee tra il bianco e il rosa nella fanghiglia del bagnasciuga. Vari uccelli lasciano le impronte delle proprie zampe nelle tracce di terra sapida, fenicotteri rosa si incontrano a parlare dei propri affari di cielo.
Questo lago era in realtà un golfo del mare Egeo, ma i detriti del fiume Meandro lo hanno pian piano tagliato fuori. O meglio, dentro. Oggi è un luogo vasto e silenzioso, che ospita antiche rovine di epoca greco-romana e combatte per sopravvivere. Gli scarichi delle città e i prodotti chimici trascinati dal fiume stanno rendendo le acque del lago sempre più inospitali. Nonostante non ci siano grandi controlli e studi riguardo all’inquinamento, il numero dei pesci è sempre più in calo, così come quello degli uccelli che lo abitano e che ogni anno tornano dalle migrazioni in numero sempre inferiore.
Tra i villaggi si sentono i muggiti delle numerosissime mucche, il latrare di qualche cane e, qua e là, il raglio di un asino.
Ci sono 42 gradi. Persone pochissime. Güray è il nuovo amico. Gli occhi azzurri sono infossati tra delle profonde rughe, la pelle è bruciata dal sole. Parla turco e tedesco, ma ci capiamo. “Tenda, 2000€!”. Mi dice di accampare tra gli alberi appena fuori dal suo “ristorante”. Sulla spiaggetta di fronte alle rovine. Ho ombra, acqua, panorama: è gratis. Posso andare da lui a chiacchierare e riempire le borracce quando voglio. Non avendo spese, posso anche andare a bermi una birretta e fare due chiacchiere.
Vorrei esplorare un po’ questo luogo magnifico, ma è letteralmente impossibile. Una follia stare sotto il sole più di qualche minuto. Così passo il tempo seduto all’ombra guardando il lago, con la compagnia alternata di Güray. Mangiamo semi di girasole, che lui apre coi denti e divora a una velocità impressionante. “I turisti li riconosci subito, li aprono con le mani. Io di questi ne mangiavo un pacchetto al giorno, ho dovuto smettere. Mia madre non sai quante botte mi ha dato! Mi diceva sempre “Smettila! Smettila di mangiare quei cosi!” Io mi sedevo davanti alla tv e in un attimo li avevo finiti. Tu vai pianissimo!!”. Ride. Per ammazzare il tempo ci mettiamo a misurare le temperature. Dentro il ristorante, in cui del cibo non c’è neanche il pensiero, ci sono 39 gradi. Lo mettiamo in strada: 52.
E io il domani lo passerò lì.
“Çok sıcak, çok sıcak!” (“Molto caldo”).
Pedalare non ti fa saltare niente. Ogni luogo te lo devi conquistare, quello che ti separa, ogni volta, lo devi affrontare. Non c’è alternativa. Capita di passare giornate intere in posti mediocri, medi, carini, brutti, belli. Quelli davvero magnifici sono rari. In un viaggio a motore si salta da un highlight all’altro, ci si ferma sempre nei posti più belli di un paese. Si salta tra il meglio del meglio. In bicicletta invece si va piano e di conseguenza si “sta”. A volte è molto faticoso passare giorni su giorni in posti brutti. Il lato psicologico influisce moltissimo su quello fisico. Quando però si arriva in luoghi magnifici come Bafa, il sapore è meraviglioso. La bellezza vale dieci volte di più.
Il canto del Muezzin arriva puntuale pitturando di colori diversi le sfumature delle rocce. Ci ricorda che ore sono e che prima o poi la temperatura scenderà. Finalmente anche i cani possono uscire dall’ombra, gli ulivi prendere fiato. La cosa più incredibile è che di notte mi capita di dover mettere la felpa. Di giorno cerco di non morire.
E così eccoci di nuovo. Oggi il meteo ne dà 42. Non so per quale motivo al lato della strada ci sono dei tubi che da un 2-3 metri d’altezza lasciano scrosciare acqua fredda senza interruzione. Come se la Turchia non avesse immensi problemi idrici. Io però ne godo follemente, e ogni volta ci passo sotto due tre volte con tutta la bicicletta.
Dal essere fradicio all’essere di nuovo completamente asciutto è comunque questione di pochi minuti.
Fino a pranzo me la cavo bene, 50 km che scorrono. Poi, inizia l’inferno. Inizio a dovermi fermare ogni 5-6 km. Fa un caldo allucinante. Le soste diventano a ogni ombra che trovo sulla strada. Ho sempre meno forza e inizio a svarionare. Sciolgo nell’acqua calda l’ultima bustina di integratori che mi è rimasta. Recupero un pochino di energia, ma sono comunque morto, praticamente non mi muovo. Mancano ancora tre salite prima di scendere a Bodrum. Alle 18 parte l’ultimo traghetto per la penisola di Datça, e non posso perderlo. I prezzi per dormire in città non sono accessibili e le forze per uscire e montare la tenda da qualche parte non esisteranno.
Sono sulla salita numero uno, mi sto trascinando, quando al lato della strada vedo un uomo con una coca cola in mano che mi fa cenno “ne vuoi?”. Se ne voglio?
È il gabbiotto dei taxisti, appena fuori da un mega resort su cui stavo fantasticando.
“Salve, prendo un appartamento per tre notti”
“Ma lei fa schifo!”
Gli infilo 1000 lire nel taschino.
“Benvenuto signore, sono 450€ a notte”.
“Benissimo. Carta grazie!”
Sto allucinando.
Ma i taxisti esistono davvero.
“Hai fame?”. Un peperone freschissimo, pomodorini, cetrioli. Un piatto di spaghetti in bianco. “Ketchup?” “Ehm….”, “Tomato sauce!?”, “Ah, ok! Yes..!”. E vai con gli spaghetti al ketchup.
È incredibile come dopo 80 km sotto il sole, anche degli spaghetti col ketchup possano essere buonissimi. Ed è incredibile allo stesso modo come dei benzinai, abbracciati dall’asfalto e dal cemento, possano essere ogni volta il luogo più bello che tu possa mai vedere.
“Sei matto ad andare in giro con questo caldo?”. Eh, probabilmente sì.
Rinasco. Faccio gli ultimi 10km con facilità, e riesco a prendere il traghetto.
Dopo un paio d’ore di luce dorata sono dall’altro lato. Vado in fondo alla spiaggia e mentre il sole accarezza l’orizzonte monto la tenda. Dietro di me dei grandi campi coltivati, davanti a me la spiaggia. Delle belle montagne ci fanno da anfiteatro, tanti rifiuti riempiono lo spazio intorno a me. Arriva una coppia in motorino. Si siedono a godere dell’amore e dei colori della fine del giorno. Dei lavoratori rientrano con le schiene cariche di verde. Un uomo che vive tra le rocce in fondo alla baia, con capre e cani, passa più volte. Ci salutiamo ripetutamente, è molto cordiale. C’è un venticello bellissimo. Mi addormento.
Sono le due di notte e mi sveglio. Sto facendo sogni deliranti, probabilmente ho la febbre. Il mio corpo è caldissimo. Il sole non ha perdonato. Apro anche l’altro lato della tenda, lasciando scorrere una brezza che mi riporta tra i sogni, questa volta più freschi e piacevoli.
La mattina, però, il mio corpo ha dato il segnale chiaro e tondo: oggi niente sole, oggi niente fatica. Ma non lo ascolto. In realtà è che non so dove andare. Non posso stare dove sono, perché non c’è ombra da nessuna parte. I campeggi più vicini sono comunque lontani. Tanto vale provare.
Faccio una spesa che spero mi possa sostenere. Non ci sono più i miei amati benzinai, ma per fortuna appaiono delle fontane. L’acqua è sempre tiepida, ma va bene anche così.
Le pause iniziano a essere sempre più frequenti, e ogni volta mi rovescio in testa diverse borracce d’acqua. In salita mi fermo a riposare a ogni ombra. Il posto dove pensavo di fermarmi per pranzo non esiste, così imbocco quella che so essere una lunga salita, dopo essermi infradiciato il più possibile all’ennesima fontana. Alle 13 mi fermo sfinito, non sono nemmeno a metà. Mi fermo per più di due ore, nella speranza che cali un po’ il caldo, che la scalata sia quasi finita e che le mie energie si siano un po’ ricaricate. Mi sbaglio su tutti i fronti. La salita, sotto un sole trucido, non finisce mai. L’acqua nelle borracce è talmente calda da essere ormai imbevibile, l’unica fontana che incontro è secca, dietro ogni curva c’è un’altra salita. Se non bastasse, delle infime mosche mi si attaccano alle gambe e mi pungono. Fanno un gran male. Sono esausto. Non vedo acqua, non vedo la fine. Smadonno come non mai, urlo imprecazioni nel silenzio delle rocce. Come faccio ad andare avanti? Come ci arrivo in cima? Dove sono i miei benzinai? Dietro una curva c’è finalmente una piccola discesa e, miracolo, un po’ d’ombra. Mi fermo sconvolto. Pochi metri più avanti c’è un camioncino fermo al lato della strada. Inizialmente non mi chiedo il perché. Poi riparte, lasciandomi vedere l’oasi a cui si era fermato. Un angolo d’ombra, di piante verdi: acqua!!!!
Mustafa Karademir Gülmar Hayrati. La fontana della salvezza, l’incontro con la speranza, la fonte della vita.
Queste fontane (hayrat çeşmesi) sono costruite dai familiari per onorare un defunto, garantendogli “benedizioni senza fine”.
Nell’Islam, donare acqua è considerato un atto di benevolenza eterna che continua a portare meriti spirituali al defunto anche dopo la morte.
Mi doccio completamente, più e più volte. Bevo litri d’acqua. È freschissima! Buonissima! Ogni colata gelida è un piacere, a ogni scrosciata, piano piano, mi risveglio un po’.
Ho un santo.
La sua morte, e quello che i famigliari hanno fatto in sua memoria, hanno quasi salvato la vita a me.
Mi viene da pensare a quando noi occidentali perdiamo un animale a noi caro. Un gatto, un cane. Lo seppelliamo in giardino e ci mettiamo sopra una piantina. In qualche modo crediamo che lei si possa alimentare della sua energia, e che in qualche modo possa farlo essere ancora con noi. Che i nostri amati, così, siano fonte di nuova vita. Per Mustafa hanno fatto una fontana, e sul dare nuova vita non ho dubbi: funziona eccome.
L’effetto magico non dura per molto, anche se mi ha davvero salvato. Purtroppo le magliette tecniche sono ottime per tanti motivi. Fanno sudare meno, si lavano in fretta, si asciugano velocemente. Ora però, troppo velocemente. Ho ancora tante salite, e mi trascino pian piano. Sto già di nuovo snervando dallo sforzo, dal caldo e dalla stanchezza. Le mosche non mi mollano. Per fortuna raggiungo un paesino, Hisarönü, dove c’è un campeggio, e la faccio finita. Oggi ho sbagliato tutto.

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Le Immagini

1 – Kapikiri, Turchia

2 – Samothraki, Grecia

3 – Lago di Bafa, Turchia

4 – Lago di Bafa, Turchia

5 – Falekas, Samothraki, Grecia

6 – Izmir, Turchia

7 – Samothraki, Grecia

8 – Lago di Bafa, Turchia

9 – Samothraki, Grecia

10 – Samothraki, Grecia

11 – Pamucak, Turchia

12 – Kapikiri, Turchia

13 – Lago di Bafa, Turchia

14 – Samothraki, Grecia

15 – Samothraki, Grecia

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